Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

Gli operatori della cura a prova di rischio


22 Set 2019 - articoli

Gli operatori della cura a prova di rischio

1.L’operatore e il rischio
Nelle riflessioni che si sviluppano intorno alle cosiddette professioni di aiuto e di cura e che coinvolgono diverse categorie di figure professionali, che vanno dall’assistente sociale all’educatore, dall’animatore all’infermiere, dal fisioterapista all’operatore della riabilitazione,il concetto di rischio è oggi molto frequentato. Accanto a una connotazione essenzialmente negativa, che continua a mantenere la sua validità, c’è però anche lo spazio per delle considerazioni di ordine positivo che si riferiscono non solo al campo dell’azzardo e della sfida, ma anche a quello dell’arricchimento vitale che si accompagna alla capacità di rischiare. In questa direzione, quando si mette in campo la relazione tra operatore e rischio, la prima formulazione che viene in mente è quella che mette in causa l’operatore nella sua capacità, o meno, di rischiare, nella convinzione che un operatore incapace di rischiare coinvolge il suo utente in una relazione impoverita di quell’elemento vitale che si lega appunto alla possibilità di osare, di affrontare la vita in una forma intensa, flessibile e creativa. Questa prospettiva la si potrebbe denotare come quella del dover essere, in quanto si assume il compito di richiamare l’operatore a fare i conti con un modello ideale nel quale deve trovare posto la capacità di sostenere una relazione professionale contrassegnata dalla dimensione del rischio.
Come tutte le prospettive del dover essere, anche questa innesca e sostiene una spinta propulsiva ma contiene anche il pericolo di un costo molto alto: quello di aprire un varco al senso di colpa legato all’inevitabile scarto che si viene a produrre tra ideale e realtà. E’ a tutti ormai noto quanto i sensi di colpa di questo tipo finiscano in realtà per appesantire, fino a provocare dei veri e propri inceppi, il cammino degli operatori dell’educazione e della cura, schiacciati tra un ideale dover essere molto esigente e una realtà operativa quasi sempre al di sotto delle aspettative proprie e istituzionali.
Può essere allora utile aprirsi a un’altra prospettiva, che invece di porsi dalla parte di chi chiede all’operatore di dover rischiare, ponga invece la domanda preliminare: a quali condizioni un operatore può diventare capace di rischiare? E, di conseguenza: cosa è utile prendere in considerazione per capire come un operatore può mettersi nella condizione di poter fare i conti con il rischio per sé e per il suo utente?
Questa seconda prospettiva, per differenziarla dalla prima del dover essere, potremmo chiamarla la prospettiva del poter essere.

2. L’inevitabile rischio dell’essere operatore
La relazione tra i due fattori, operatore e rischio, può subire a questo punto una interessante inversione: dalla capacità di rischiare richiesta all’operatore, si passa alla possibilità di essere a rischio dell’operatore stesso. A pensarci bene infatti, c’è in gioco una “questione preliminare” che va affrontata prima di poter parlare all’operatore della sua maggiore o minore capacità di rischiare, e tale questione riguarda il rischio inevitabilmente connesso alla scelta di una professione che si colloca nel campo di cui stiamo trattando, cioè quello delle cosiddette professioni di assistenza, di cura o di aiuto alla persona. Questo rischio, che possiamo correttamente definire “professionale”, è da considerarsi giustamente come preliminare perché si colloca prima dell’entrata ( limen in latino significa soglia, porta, entrata), cioè proprio in relazione alle motivazioni per cui qualcuno decide di varcare la soglia costituita da una certa professione. Ogni scelta comporta un rischio e la prima domanda che si deve porre (a) un operatore è allora questa: quali sono i rischi legati alla decisione di diventare un professionista dell’assistenza o della cura?
Chi si occupa della formazione o ha esperienza di supervisione degli operatori nell’esercizio del loro lavoro, sa per esperienza che questa scelta professionale contiene un rischio strutturale, inevitabile, che va necessariamente preso in esame, riconosciuto e lavorato, se si vuole che la pratica lavorativa non si risolva in un fallimento più o meno pesante per l’operatore e i suoi utenti. Di questo rischio possiamo darne una formulazione provvisoria prima di aprire una digressione sul concetto di cura: un soggetto che decide di diventare un operatore assistenziale o della cura, rischia di curare se stesso utilizzando i problemi e i bisogni dei propri utenti, perché sfrutta la relazione professionale per tentare di risolvere problemi personali preliminarmente non riconosciuti e risolti. Non ci vuole molto a capire che la posta in gioco è molto alta e riguarda una questione etica che viene scarsamente presa in considerazione quando si parla delle professioni educative,assistenziali, di aiuto alla persona o di cura vera e propria, in cui i destinatari dell’intervento sono costituiti da soggetti immaturi o in grave stato di disagio fisico o psichico e dove è quotidianamente in gioco un rapporto diretto con l’angoscia e la sofferenza e, su uno sfondo più o meno prossimo, con la morte.

3. La cura, tra guarigione e accudimento
Il concetto di cura è centrale nel tipo di professioni di cui stiamo parlando. Il significato di questo concetto oscilla, nel nostro contesto, tra due poli culturalmente radicati che rimandano da una parte alla cura medica e dall’altra alle cure materne. Quando prevale la prima polarità, la cura si confonde praticamente con il concetto di guarigione e curare viene a coincidere con il risanare qualcuno che è pensato come “malato”. Questa prospettiva accentua l’identificazione dell’operatore come agente della cura e quella dell’utente come paziente, oggetto della cura, con tutte le implicazioni che una simile ripartizione di attività e passività comporta e sulle quali non è il caso di soffermarci in questo contesto.
La seconda polarità, che assimila la cura a quel prototipo naturale– che in realtà di naturale ha ben poco- costituito dalle cure materne, è a sua volta molto presente soprattutto in rapporto ad alcune tipologie di utenti come i bambini e i minori in genere, ma anche tutti i soggetti “deboli” da un qualche punto di vista, fisico o psichico. In questo caso la relazione si colora di una diversa forma di attività-passività ma sostanzialmente rimane confermata la posizione di un curante e di un “curato-accudito”. All’obiettivo della guarigione si sostituisce in questi casi, in forma e in misura diversa a secondo della situazione, quello dell’accudimento in vista della maturazione o della autonomizzazione dell’utente.
Il presupposto implicito in ambedue queste posizioni è che viene data per vera una differenza qualitativa tra il soggetto curante, in questo caso l’operatore, e l’utente, assumendo l’esistenza di una reale differenza tra ciò che è normale e ciò che è patologico sul piano psichico.Tutto si gioca intorno alla qualifica di “realtà” che può essere assegnata o meno al concetto di normalità, nel senso che se si ritiene che possa effettivamente esistere la possibilità di distinguere qualitativamente un soggetto normale da uno patologico, allora questa distinzione è destinata a produrre logicamente una separazione che introduce una vera e propria divisione di campo tra i soggetti. Data la gravità delle possibili ricadute di un simile modo di vedere, vale la pena di ripensare il concetto di normalità psichica.

4. L’assistenza e la cura in rapporto alla normalità e alla patologia
Abbiamo visto che se assumiamo come vera la possibilità di esistenza nella realtà di soggetti normali, ci troviamo nella necessità di riconoscere gli altri , classificati come patologici, come soggetti qualitativamente diversi, cioè altri rispetto ai primi. Questo comporta, logicamente, che un operatore che si dispone a entrare in una relazione di aiuto, non possa che disporvisi in quanto si ritiene normale in rapporto a un utente che viene collocato, anche se a titolo diversificato, nell’area della patologia. La conseguenza inevitabile sarà quella di produrre una relazione in cui il ruolo obbligato dell’operatore non potrà che essere quello di risanare-riportare alla normalità il proprio utente. Questa situazione ha avuto e ha tutt’ora dei risvolti problematici anche per quegli operatori che, rifiutando per ragioni ideologiche di riconoscersi nel ruolo di normalizzatori, hanno difficoltà a dare un altro senso alla propria attività professionale che rischia di risolversi in una pratica di rieducazione o di cura sostenuta da un sentimento di benevolenza compassionevole.
La psicoanalisi ci offre la possibilità di uscire da questo impasse proprio partendo da una diversa definizione del concetto di normalità psichica. Sulla base della pratica clinica, cioè della cura di soggetti reali e non sulla base di asserzioni di principio , Freud è arrivato ad affermare e a mostrare come la normalità non possa essere considerata una realtà possibile ma solo una finzione ideale, dove il concetto di finzione va preso nel senso forte dell’etimo latino di fictio, cioè di una costruzione di pensiero, come lo sono tutte le ipotesi in campo scientifico. Così si esprime in una delle tante occorrenze testuali al riguardo:”L’Io normale è, come la normalità in genere, una finzione ideale. Non è una finzione, purtroppo, l’Io anomalo. Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale in quanto il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per un tratto o per l’altro, in proporzione maggiore o minore, e la misura della lontananza da uno e della vicinanza all’altro degli estremi della serie sarà assunta provvisoriamente a criterio di ciò che abbiamo così approssimativamente definito “alterazione dell’Io. Nonostante l‘indeterminatezza concettuale che la caratterizza, alla distinzione tra ciò che è normale e ciò che è morbosi non possiamo rinunciare per motivi pratici”.
Come si vede, Freud ragiona sulla normalità togliendola dal campo della realtà e collocandola nel campo del pensiero , definendola non in rapporto a un “ideale” punto di arrivo come può essere la maturità, ma legandola a un “reale” punto di partenza comune a tutti i soggetti che è il fondamento psicotico e assumendo il concetto di normalità come un concetto di “uso pratico”, utile però proprio perchè pensato sempre come provvisorio e approssimativo. Ma dove si può collocare allora la distinzione tra i soggetti? E di quale distinzione si può utilmente trattare perché non abbia gli effetti nefasti della separazione? La risposta freudiana è davvero sorprendente e di una portata rivoluzionaria, nel senso che produce un capovolgimento rispetto al precedente modo di pensare:”La malattia – per lo meno quella chiamata a buon diritto funzionale, per distinguerla da quelle organiche – non ha come presupposto la distruzione dell’apparato psichico né la produzione di nuove scissure al suo interno; essa va spiegata dinamicamente, attraverso l’invigorimento o l’indebolimento delle parti che intervengono nel gioco di forze, di cui numerosi effetti rimangono celati durante la funzione normale…. Gli elementi costitutivi della psiche sono sempre gli stessi…Noi dichiariamo poi, in base a certi criteri, che le particolarità di un individuo sono normali o patologiche. Ma questi criteri non sono assolutamente né univoci, né sicuri, né stabili…Per valutare i processi psichici l’alternativa posta dalle categorie normale-patologico è altrettanto inadeguata quanto quella buono-cattivo che un tempo dominava incontrastata”.
Da queste affermazioni risulta allora chiaro che la distinzione per la psicoanalisi non è di natura qualitativa ma semplicemente di natura quantitativa e questo impedisce a un operatore di potersi pensare come altro anche rispetto a un utente psichiatricamente diagnosticato come psicotico, in quanto rimane vero anche per lui il rapporto con la psicosi, non solo come comune punto di provenienza ma anche come modalità di regolazione “in parte” presente nella sua vita e, inoltre, come scelta sempre possibile – nella forma di un crollo – in relazione ai casi della vita stessa.
Il superamento della separazione a favore di una riconosciuta comunione di struttura permette anche di risignificare il rapporto di cura tra un operatore e il suo utente strappandolo dal campo della normalizzazione e assegnandolo a quello dell’offerta, a chi è in una situazione di sofferenza o di bisogno, di una possibilità di recuperare – non senza la sua attiva partecipazione – quanto di una regolazione vitale è a sua disposizione, tenuto conto delle proprie specificità fisio-psichiche e della propria storia passata e attuale. In questa prospettiva il concetto di cura muta in quello di farsi carico.

5. L’operatore e il “farsi carico”
Perché un soggetto possa correttamente decidere di diventare un “operatore della cura” per un altro, aiutandolo a fare i conti con il disagio dell’esistenza per quel tanto di destino e di storia, cioè di scelte, che questa contiene, deve a sua volta essersi fatto carico della propria sofferenza, perché altrimenti non potrà evitare di trasformare la relazione in una vera e propria “strumentalizzazione” della sofferenza altrui. Su questo punto, che ha delle importanti implicazioni etiche oltre che metodologiche e formative, è utile avanzare alcune riflessioni.
E’ inevitabile che alla base della scelta delle professioni di cui stiamo trattando ci sia un bisogno o un desiderio di prendersi cura degli altri. E’ utile però prendere atto del fatto che, come ci ha permesso di capire la psicoanalisi, l’oggetto primario e ineliminabile di questo bisogno è stato e in parte continua ad essere il proprio Io, cioè se stessi. In altre parole, non si può evitare la realtà del fatto che ci si prende cura degli altri per prendersi cura di sé. Chi parla della possibilità, o addirittura della necessità, che una professione di cura sia motivata da un sentimento di pura dedizione e di totale oblatività e altruismo, inganna se stesso e gli altri trasformando un ideale – che è necessario mantenere ma collocandolo nel campo dell’impossibilità reale da dove può svolgere un’importante funzione di sollecitazione per un continuo nuovo poter essere – in una realtà, con la conseguenza di aprire le porte a un continuo e inevitabile senso di colpa legato allo scarto tra un dover essere irrealizzabile e i limiti della propria esperienza.
La questione non si esaurisce però con quanto è stato sopra enunciato, che cioè ci si prende cura degli altri per prendersi cura di sé, in quanto sussiste comunque una dimensione etica legata alla scelta e questa ruota attorno al fatto se, e in che modo, un individuo che prende la decisione di prendersi cura degli altri, si è preso e continua a prendersi cura di sé. Qui sta il nodo della questione perché, paradossalmente ma realmente, si può dare il caso, molto meno infrequente di quanto si possa pensare, che qualcuno decida di prendersi cura degli altri per (non) prendersi cura di sè”. In questo caso la posizione etica è di per sé compromessa al di là di qualsiasi discorso che si può fare sulla deontologia professionale, e la relazione prende la forma di una vera e propria strumentalizzazione dell’utente.
Questa strumentalizzazione può trasparire in molti modi, a volte tra loro apparentemente opposti, come ad esempio una disponibilità illimitata piuttosto che una rigida burocratizzazione del rapporto; il bisogno di proselitismo a favore di un certo mondo di valori e di ideali; il ricatto affettivo della riconoscenza come moneta di scambio; una confusione più o meno accentuata fra vita privata e spazio professionale; un senso di delusione di fronte alle attese non soddisfatte da parte dell’utente; la scelta o l’esclusione di un certo tipo di utenti a favore di altri; un moralismo esasperato a carico degli utenti come compensazione di un mancato rigore etico personale, e via dicendo.
Sul modo in cui un soggetto possa ( e debba ) prendersi cura di sé in vista di certe scelte professionali non si possono certo stabilire delle forme obbligatorie valide per tutti e in questo senso non è condivisibile una certa prospettiva americana che impone una psicoterapia obbligatoria a tutti i futuri social workers. Quella che invece rimane valida è la segnalazione dell’esistenza dell’obbligo morale di farsi carico, nelle forme che ognuno ritiene a sé confacenti, del proprio disagio e della sua lavorazione.
Per quanto riguarda poi il modo corretto di intendere il concetto di “farsi carico”dei bisogni degli utenti, è importante precisare che non consiste nel prendere su di sé tutti i pesi degli utenti, liberandoli in toto dalle sofferenze che li affliggono. Ogni esistenza si caratterizza per i suoi pesi e l’offerta di una cura o di un aiuto assistenziale o educativo può solo avere come obiettivo quello di permettere a qualcuno di sostenere i carichi ineliminabili della propria esistenza liberandosi dei “pesi inutili e superflui” che, per sopravvivere, si è messo sulle spalle. Si tratta quindi di riconoscere un limite al proprio desiderio di onnipotenza ed è già tanto che gli operatori si occupino di non caricare sulle spalle degli utenti i pesi che non sono in grado di portare sulle proprie. A questo proposito, rimane sempre valido l’ammonimento evangelico, carico di valore sapienziale, che recita: “Guai a voi, che mettete sulle spalle degli altri i pesi che non riuscite a portare!” Il “guai!” non rimanda solo a una condanna morale, ma avverte che chi si comporta in questo modo non potrà che “procurare guai” a se stesso e agli altri.
Infatti, tornando a questo punto alla questione iniziale del rapporto tra operatore e rischio, possiamo dire che senza la decisione preliminare di cui abbiamo parlato, consistente nell’assunzione, da parte di che sceglie queste professioni, della lavorazione del proprio disagio esistenziale, un operatore non solo non potrà essere capace di assumersi dei rischi nella relazione con l’utente ma, al contrario, diventerà egli stesso un rischio per sé e per l’altro. La “realtà” della presenza di questo rischio, che potremmo definire personale, la si può vedere testimoniata dal fenomeno ormai da tutti riconosciuto del burnout, una sindrome a carico degli operatori dell’assistenza e della cura che ha le caratteristiche di uno stato di stress che rasenta il collasso psichico e che può comportare a volte , come rimedio, il cambio della professione. Come dire che l’operatore, per salvarsi, è costretto a lasciare il campo.

6. Dalla “necessità” alla “capacità” di rischiare
Se operatori non si nasce, un ruolo determinante è affidato alla formazione. Come si possono delineare le linee guida di un processo di formazione alla “capacità di rischiare” di un operatore? In primo luogo, la formazione professionale dovrebbe contemplare come obiettivo non solo quello di fornire nozioni teoriche e tirocini metodologici ma anche indicazioni circa un’eventuale mancanza di idoneità a queste professioni. La forma della preparazione di queste figure non può essere mutuata meccanicamente da modelli in uso nell’ambito universitario tradizionale. Il passaggio alle Università del compito della formazione impone alle stesse uno sforzo per adattare i propri parametri di insegnamento ridisegnandoli sulle competenze operative richieste dalla professione e integrandoli con interventi di tutoraggio e di monitoraggio delle esperienze di tirocinio, capaci anche di far emergere eventuali aspetti che possono consigliare dei cambiamenti di percorso qualora venisse accertata la mancanza di una idoneità soggettiva a sostenere senza rischi, per sé e per gli altri, una professione di assistenza, di aiuto o di cura.
Un secondo elemento da tenere presente riguarda il fatto che, con il passaggio al mondo del lavoro, non si chiude la questione del rischio per l’operatore e deve quindi essere previsto, come un vero e proprio strumento di lavoro, la supervisione intesa come spazio destinato all’elaborazione degli scarti che inevitabilmente si producono all’interno della relazione con gli utenti. Senza questo strumento, che deve essere garantito dall’istituzione, sia essa pubblica o privata, gli operatori non potranno lavorare assumendosi dei rischi perchè si sentirebbero come degli acrobati che volteggiano nell’aria senza una rete di protezione e che, per evitare di rompersi l’osso del collo, si assestano su un lavoro di routine che finirà per togliere mordente ed efficacia al loro intervento.
In conclusione, una riflessione sul rapporto tra operatore e rischio chiama in causa sia l’operatore per se stesso, che deve farsi carico delle implicazioni soggettive legate alla propria decisione, che le istituzioni che devono garantire, con una adeguata formazione e con una costante offerta di supervisione, la possibilità di continua lavorazione degli scarti che l’esercizio di queste professioni comporta.
A queste condizioni, il passo dal dover rischiare a quello del poter rischiare, ma senza mettere a repentaglio se stessi e gli altri, potrà in qualche modo essere sostenuto.
Questo lavoro è stato pubblicato sulla Rivista : Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 1, gennaio 2002.