Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

ADOLESCENZA E DISAGIO PSICHICO


23 Gen 2020 - cultura

ADOLESCENZA E DISAGIO PSICHICO

I compiti che l’apparato psichico dell’adolescente è chiamato a risolvere sono talmente gravi che non è infrequente registrare dei cedimenti o dei vacillamenti psichici che hanno fatto pensare a un particolare legame tra adolescenza e follia.

Qualcosa di vero ci deve essere senz’altro se si pensa ad esempio che l’adolescenza è l’età privilegiata per l’emergenza di una schizofrenia e che molti psichiatri non esitano a classificare quasi tutti gli adolescenti con problemi psichici di una certa entità nella categoria clinica di “borderline” o “stati-limite” tra nevrosi e psicosi.
In realtà, le questioni che l’adolescente si pone circa il suo corpo, la sua identità, la sua integrazione nel mondo e nella società, il suo ruolo sessuale, sono le stesse questioni che si incontrano nella cura delle psicosi. La difficoltà, nella clinica, consiste nel riuscire a distinguere tra le manifestazioni, anche parossistiche, proprie di una crisi adolescenziale e l’esordio di una psicosi o di una perversione.
Nei confronti dell’adolescente, l’adulto è spinto a oscillazioni estreme, preso com’è tra la spinta a sopravvalutare la portata di alcuni comportamenti al punto da incanalarlo precocemente in un percorso medicale-psichiatrico, oppure tra la tendenza a sottovalutare anche segnali inquietanti e inequivocabili di un disagio psichico grave, come per esempio nei casi di tentato suicidio, liquidando il tutto con il rimando a un momento “fisiologico” di crisi che troverà con il tempo la sua positiva e naturale evoluzione. È superfluo notare che il comportamento dell’adulto tende più in questa seconda direzione, lasciando l’adolescente a fronteggiare da solo, fino a quando ce la fa, i suoi problemi. Da parte sua, questi tenta di farlo in prima istanza con il ricorso al nuovo strumento rappresentato dalla capacità di “ragionamento logico-formale” di cui parla Piaget, con l’esito, a suo modo positivo, di approdare a quella forma di difesa indicata da Anna Freud come “intellettualizzazione”.
Quale sia il nucleo problematico implicato nella posizione del soggetto in adolescenza lo abbiamo già indicato e lo ribadiamo anche qui richiamando gli elementi strutturali in gioco così come sono presentati nella prospettiva teorica del luogo della fobia:
Con una differenza da Freud che preferisce accentuare l’inizio in due tempi della vita sessuale, collocando tra i due l’estendersi della latenza, quando rileviamo in analisi due “culmini” della vita sessuale, il primo collocato nel luogo della fobia, il secondo nell’adolescenza, al termine “culmine” leghiamo l’idea di un punto estremo, ma anche di una punta, di un pinnacolo: è in gioco la statura.
La sproporzione tra il bambino e il padre nel luogo della fobia, che ricordi di copertura e sogni in analisi sottolineano e cancellano al tempo stesso, mostrando per esempio il bambino in braccio al padre o alla madre, in qualche modo “elevato”, e ascensori e scale hanno funzione analoga, questa sproporzione lungi dallo spaventare il bambino, lo rassicura. […] Nel luogo della fobia la sproporzione mette in anticipo al riparo il bambino da una competizione insostenibile. […] Il “secondo culmine” poi, quando uscito dalla latenza l’adolescente si trova a fare conti anche con la propria sessualità, a pari statura con il padre, non rappresenta solo un “secondo tempo”, che farebbe pensare a un arco di “maturazione” della sessualità, ma entrambi i culmini sono ora presenti, come se il punto di vista, la piattaforma dell’adolescenza consentisse di recuperare anche il luogo di tanti anni prima, mai in realtà abbandonato, ma portato innanzi lungo sintomi (fobici o ossessivi, soglie, barriere ideali da non oltrepassare) o giochi e ripetizioni. La presenza simultanea dei due culmini, che muta anche qui un fatto di tempo nelle caratteristiche di un luogo e che ritroviamo continuamente nella rappresentazione unitaria e solitaria del romanticismo, le due torri, i due pinnacoli, i due campanili della pittura tedesca dell’ottocento, rappresenta la sfida dell’adolescenza.
Può esserci un dialogo con il padre e il suo godimento, ma in questo caso qualcosa ha funzionato nell’ordine dell’eredità e della trasmissione. Il soggetto ha un nome, e ora una tecnica, che condivide con il padre, ma che sono anche gestiti in proprio.
Oppure la questione sconvolgente del godimento ora presente in materia anche nella propria vita induce il soggetto a un confronto distruttivo: o tu o io è l’avvio del suicidio; l’identificazione totale quello della schizofrenia che si manifesta proprio intorno ai quattordici anni (Finzi Ghisi , I Saggi 1968-1998, Moretti e Vitali, 1999, p. 410).
Se un’indicazione può essere tratta da queste riflessioni, essa va nella direzione di non sottovalutare il disagio psichico dell’adolescente ma di fornirgli la chance di un ascolto che non sia preoccupato di tacitarlo ad ogni costo magari con un ricorso sconsiderato ai farmaci o a forme di rieducazione mascherate da psicoterapia.
Dare spazio al disagio psichico dell’adolescente significa, per l’adulto, riprendere contatto anche con le proprie questioni vitali spesso troppo frettolosamente liquidate come risolte per garantirsi un equilibrio che partecipa più della rigidità del cadavere che non del dinamismo di una danzatrice.

Il suicidio degli adolescenti
Uno degli esiti, come abbiamo visto, del confronto con il godimento del padre può essere costituito dal suicidio. L’entità del fenomeno è difficilmente valutabile e può variare in relazione a fattori storici e culturali ma oggi non possiamo sottovalutarlo se pensiamo che interessa non solo i casi in cui l’esito è fatale ma anche quelli in cui è tentativamente attuato e, forse, molti casi di morte violenta di adolescenti su base “incidentale” (si pensi al fenomeno in crescita del decesso per incidenti stradali legati a forme di guida spericolata o a vere e proprie messinscena di “sfide alla morte”).
Il fatto che tale comportamento si collochi elettivamente a questa età richiede quindi una qualche considerazione anche perché forse è una patologia verso la quale si può pensare seriamente di attivare delle strategie a carattere preventivo e curativo.
La prima cosa da fare consiste nel promuovere la distinzione di fondo tra l’adolescente che “pensa” al suicidio e l’adolescente che lo “mette in atto”. Pensare che non sia possibile o, peggio, che non valga la pena fare questa distinzione può portare, come è avvenuto di fatto, a una duplice grave conseguenza: da un lato si finisce per sottovalutare la normalità degli adolescenti normali, e dall’altro si sottovaluta la gravita della psicopatologia degli adolescenti che stanno male. Il suicidio è da considerare sempre come l’espressione di una grave patologia psichica, anche se di carattere acuto nell’adolescente, in quanto espressione di una strutturazione psichica non ancora definitiva che, nei casi fortunati che non si concludono con la morte, apre alla possibilità di un intervento che può avere delle chance di successo.
In sé, il suicidio rientra nella categoria degli “agiti” degli adolescenti, cioè di quelle soluzioni di un conflitto psichico che non passano attraverso l’elaborazione simbolica ma si traducono in un “passaggio all’atto” che esprime l’impossibilità del soggetto ad accedere a un sapere che lo riguarda o a prendere contatto con alcuni contenuti della memoria che tendono ad affiorare. Non disponendo della possibilità di rappresentarsi il conflitto e di elaborarlo, l’adolescente imbocca come via di soluzione quella della messa in atto della propria morte.
Quello che appare come dato fenomenologico più evidente è il legame con la depressione, che ha fatto dire a molti autori che il suicidio è sempre da collegare con un grave stato depressivo. Freud preferisce mettere in luce il legame con il meccanismo del lutto e della malinconia in rapporto comunque a dei processi di identificazione. Se l’esito finale può essere letto come l’espressione dell’angoscia di morte di un Io che rinuncia a vivere perché si sente odiato e perseguitato dal Super-io, è anche vero che questo momento è preceduto da un altro in cui, attraverso un processo di identificazione, l’Io rivolge contro se stesso un desiderio di morte originariamente destinato a una persona amata con cui si era identificato. Così scrive Freud (1920) parlando del caso di tentato suicidio di una giovane omosessuale:
“L’analisi ci ha spiegato l’enigma del suicidio nel seguente modo: nessuno, forse, troverebbe l’energia psichica necessaria per uccidersi, se innanzitutto in questo modo non uccidesse insieme anche un altro oggetto con cui si è identificato, e se inoltre così facendo non volgesse contro sé medesimo un desiderio di morte che prima era diretto contro un’altra persona”.
Come sia possibile desiderare la morte di una persona amata è comprensibile se si pensa all’ambivalenza fortemente accentuata propria delle relazioni primarie. A questo punto della storia del soggetto adolescente, nel conflitto con il secondo culmine del godimento del padre, si può attivare quella dinamica che i Pinzi indicano appunto come dinamica dell’esclusione: o tu o io, che col suicidio svela il suo essere, come Freud aveva fatto notare, non un effetto della psicosi ma un suo sostituto, e che con l’omicidio svela invece il virare del soggetto in direzione della perversione.
È singolare come gli autori che hanno studiato a fondo questo fenomeno hanno insistito sulla nozione di tempo caratteristica dei giovani suicidi: il tempo vissuto verrebbe ridotto alle dimensioni dell’evento immediato che assumerebbe, a questo punto, il peso schiacciante dell’irrimediabile. Venendo meno la possibilità di una diacronia, tutto si schiaccia sulla sincronia del presente.
Se coniughiamo allora, come abbiamo sempre tentato di fare, la dimensione temporale con quella spaziale e richiamiamo l’elemento strutturale della compresenza dei due culmini senza che intervenga la possibilità di un loro “distanziamento”, si produce un effetto che potremmo verbalizzare in questo modo: “Non c’è posto per tutti e due nello stesso momento: o tu o io!”.
Non è difficile capire allora come, se si smette di considerare il tentativo di suicidio dell’adolescente come una semplice messa in scena finalizzata a ricattare chi gli sta intorno ma gli si conferisce la portata drammatica che gli è propria, diventa forse pensabile anche attribuire una maggiore attenzione a questo fenomeno sia in senso preventivo che in senso terapeutico, superando la risposta unicamente psicofarmacologica che usualmente caratterizza gli interventi in questo campo. In questo senso, la qualità della relazione che gli operatori dei servizi destinati al disagio adolescenziale sapranno instaurare può diventare importante.

Questo scritto è tratto dal testo: Il soggetto in divenire, Ed. Libreria Cortina, Milano 2002, pp. 256-260.