Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

IL CARCERE: QUALE SPAZIO PER QUALI FORZE?


6 Mar 2020 - articoli

IL CARCERE: QUALE SPAZIO PER QUALI FORZE?

Prenderò come punto di avvio la considerazione del carcere come una forma dello spazio caratterizzata nella sua essenza dal fatto di essere delimitato, chiuso e costrittivo, nel senso che qualcuno vi è collocato e vi deve rimanere per forza.
Questo per forza non può non richiamare subito il suo reciproco per amore contenuto nell’espressione: o per amore o per forza, che ci segnala che abbiamo a che fare con la forza non in senso assoluto ma relativamente a un gioco di forze.
Questi due elementi, uno riguardante lo spazio e uno riguardante un gioco di forze, sono gli stessi che Freud utilizza per delineare la natura di quell’apparato quant’altro mai complesso e stupendo che è l’apparato psichico.
Che cos’è l’apparato psichico? Un gioco di istanze regolatrici di forze in rapporto alla loro dislocazione in uno spazio (perché la psiche è estesa), composto da diverse parti o stanze che permettono appunto una vicenda articolata che possiamo chiamare gioco di forze, nella dinamica fondamentale di un rinvigorimento e di un indebolimento.
Il carcere possiamo concepirlo quindi d’acchito come uno spazio che viene imposto a un soggetto per un contenimento di forze che egli non è stato in grado di operare per conto proprio. Per questo si dice: o per amore o per forza. Siccome non ti sei dato cura di porre un limite allo strabordare delle tue forze, allora ti viene dato per forza uno spazio come cura a questo compito mancato. Dovrebbe essere una cura transitoria finalizzata a restaurare una capacità originariamente posseduta e in seguito persa: cura come restauro e come riabilitazione, cioè come riacquisizione di una abilità da usare di nuovo in proprio, per amore di sé e non per forza d’altri.
Su questo aspetto della funzione terapeutica dell’esperienza carceraria non mi soffermo per il momento. Vorrei invece dire qualcosa a proposito delle forze e del loro gioco.

Le forze in campo: Neicos e Filía

Con una sola forza non c’è gioco e se non c’è gioco non c’è vita. Questa convinzione, che Freud aveva ricavato dalla sua formazione di medico e di ricercatore, lo porta a leggere i processi psichici come una vicenda dualistica di quelle forze che egli, per distinguerle dall’istinto, si è deciso a nominare pulsioni.
Forze di natura particolare le pulsioni, non più garantite nel loro funzionamento da una sedimentazione di forme trasmesse geneticamente come gli istinti, ma svincolate da un rigido rapporto naturale tra spinta e scarica, tra bisogno e soddisfazione, e aperte a un’economia di desiderio il cui destino contiene un margine di possibilità che è per sua natura coestensivo però con un margine di rischio, testimoniato dalla presenza di una serie di strategie di sopravvivenza fallimentari rispetto a un‘ideale capacità di garantirsi un benessere individuale e collettivo.
All’inizio Freud parlerà di un dualismo tra pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali, ma dopo l’esperienza traumatica della prima guerra mondiale, di questa specie di stupro a dimensione planetaria, arriverà all’individuazione definitiva del dualismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte. A questa teorizzazione non rinuncerà neanche quando, all’interno della psicoanalisi, molti si rifiuteranno di seguirlo su questo terreno perché attratti da prospettive più rassicuranti e più semplici, essenzialmente di tipo monistico. Quello che per molti è stato e rimane insostenibile è il pensiero che la vita non sia regolata unicamente da spinte vitali che hanno nell’Amore il loro rappresentante, sia nella forma dell’Eros greco che in quella dell’Agape cristiana. Si pensi al celebre inno alla carità di S. Paolo ai Corinti: Charitas (agàpe) omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet. La Carità ( o l’amore) sopporta tutto, crede in tutto, spera sempre, sopporta tutto. Per il laico vale l’equivalente: Omnia vincit Amor. Anche Jung era arrivato a staccarsi da Freud proprio attorno alla questione di un concetto di libido unificato, cioè monistico. La guerra con i suoi orrori non fa che svelare sulla scena del mondo ciò che Freud andava scoprendo sulla scena dell’anima di ogni soggetto: grazie alla presenza di un dualismo pulsionale, si possono dare impasti in cui il principio di piacere-dispiacere non è più l’unica legge di regolazione funzionante, ma nei quali è all’opera un’altra inquietante possibilità di regolazione che va al di la del principio di piacere. Si può dare cioè l’evenienza che il gioco di Eros si combini strettamente con quello di Thanatos dando luogo a un vero e proprio godimento della morte, una specie di piacere mortifero e mortificante, in tutte le sfumature materiali e spirituali possibili. Quando, verso la fine della sua vita, Freud si decide a fare una specie di bilancio del rapporto tra teoria e clinica, egli ripropone con forza la sua posizione teorica e addirittura ne troverà conferma nelle radici stesse del pensiero occidentale nella teorizzazione filosofica di quel grande uomo di ingegno, ricercatore e pensatore al tempo stesso, che fu Empedocle di Acagra, vissuto nel secolo V a.C., che aveva appunto parlato del gioco fondamentale sostenuto da due forze che egli nominò Neicos (discordia, odio) e Filía (amore, amicizia). Scrive Freud: “ Neicos e Filía sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione, la prima delle quali tende ad agglomerare tutto ciò che esiste in unità sempre più vaste, mentre l’altra mira a dissolvere queste combinazioni e a distruggere le strutture cui esse hanno dato luogo. (1)
Quello che è interessante sottolineare è il fatto che Freud aveva già messo in luce una particolare combinazione o impasto di Neicos e Filía, che vedeva il Neicos prendere la forma del Necros cioè del morto, del cadavere, e combinarsi a una passione: necrofilia. Contro questa punta estrema del dominio del Neicos egli aveva anche messo in luce un punto idealmente opposto, caratterizzato dal predominio della Filía, quando aveva parlato della possibilità della sublimazione come forma di regolazione psichica capace di fornire alla spinta uno sbocco altro rispetto alla meta della scarica nella soddisfazione sessuale. In mezzo, tra l’estremo della necrofilia e quello della sublimazione mistica, egli aveva collocato le innumerevoli sfumature della regolazione più o meno inibita della nevrosi, nella quale faceva la sua comparsa, a caratterizzare la Filía, il meccanismo regolatore della fobia: dalla zoofilia alla zoofobia.
Qui fa la comparsa il riferimento a un tempo, l’infanzia: le zoofobie sono tipiche dei bambini intorno ai quattro anni.

Tempi “topici” della regolazione pulsionale

Può esserci utile avanzare a questo punto una domanda: ci sono dei tempi topici (nel senso letterale di un tempo che si lega a uno spazio) in cui si decidono in modo significativo le vicende di una regolazione delle spinte pulsionali che, come sappiamo, puntano sia in direzione della vita che della morte? C’è da essere interessati a questa questione, soprattutto nella prospettiva di capire se c’è qualcosa, e quando, che può far propendere un soggetto per una regolazione in cui la componente mortifera-distruttiva dell’impasto pulsionale rischia di diventare prevalente su quella vitale-erotica. A questa domanda Freud fornisce una risposta con la riflessione parlando dei destini delle pulsioni.
Destino: parola carica di senso , che egli mette in campo riprendendola dall’humus della tragedia greca (si pensi alla tragedia destinale per eccellenza che è l’Edipo) ma non con l’intento di schierarsi su uno dei due fronti della discussione secolare giocata attorno alla contrapposizione tra destino e libero arbitrio. Per lui non si esce da questo dilemma optando per una delle due alternative, ma il nodo va sbrogliato mantenendo in campo sia la determinazione che la libertà. Bisogna accettare la sfida di essere soggetti a un destino ma con la possibilità di coniugarlo con un soffio di libertà personale. Sul versante del destino Freud svela l’esistenza di un tratto caratteristico delle vicissitudini delle pulsioni sessuali, quello di svilupparsi in due tempi e in corrispondenza di due culmini: il primo collocato intorno ai quattro anni e il secondo coincidente con la pubertà, con in mezzo un tempo particolare, peculiare alla sola specie umana (e qui sta un primo tratto del destino), chiamato tempo di latenza. Questa predisposizione, destinale e strutturale come quella relativa al linguaggio, si colorerà per ogni soggetto di un altro elemento necessitante e vincolante, a suo modo anch’esso destinale, che possiamo chiamare la forma delle vicissitudini del soggetto nel familiare, inteso come lo spazio di vita a cui un bambino è assegnato al momento della propria nascita.
Al di là degli elementi storico-destinali, c’è però sempre e in ogni caso una spazio dove va collocata la possibilità di un movimento di scelta individuale da intendere come la firma – che è poi una forma – che un soggetto appone, nei due tempi della maturazione psicosessuale, al riconoscimento del proprio destino che, a partire dai quattro anni, non può essere assunto che come destino proprio con quanto di sofferenza e di benessere questo si porta con sé. Questa decisione, che non è mai completamente libera ma neanche completamente necessitata o preformata, verrà attuata anch’essa in due tempi, in corrispondenza dei due culmini prima accennati, con la differenza che, con la pubertà, il bagaglio delle pulsioni si caratterizzerà per l’acquisizione della capacità di generare: la spinta a procreare, che nel primo culmine non ha uno sbocco nella realtà, con la pubertà diventa realizzabile.

Le forme delle scelte psichiche del soggetto e la questione della colpa

Quando un soggetto si dispone alla scelta psichica, coniugando in forma personalizzata vincolo e necessità, non ha di fronte a sé una disponibilità infinita di forme ma, dalla psicoanalisi, vengono individuate tre forme fondamentali, che non si danno se non idealmente come forme pure e che nella realtà si ibridano in combinazioni molto variabili, di cui la cosiddetta normalità non rappresenta che una combinazione, sempre intesa da Freud come finzione ideale approssimativa e provvisoria.
Queste tre scelte approssimative di base, nominate come psicosi, nevrosi e perversione, (2) sono utili per il nostro discorso perché si accompagnano a un certo modo di dare forma alle pulsioni aggressive e distruttive che sono quelle responsabili del fatto per cui un soggetto può finire in carcere.
In questo senso è illuminante una breve osservazione di Freud, poco considerata nelle sue implicazioni teoriche e pratiche. Parlando del bambino intorno ai tre-quattro anni, egli riporta, sulla base dell’esperienza clinica degli adulti, confermata da quella con i bambini, un tratto comune riguardante proprio la regolazione dell’impulsività. C’è un momento in cui questa questione si pone al bambino ed egli è chiamato a metterci mano fornendo a se stesso una risposta capace di orientarlo nel presente e nel futuro. Vediamo innanzitutto di quali impulsi si tratta e a quali vicende psichiche si allacciano: Con questo eccitamento sono collegati impulsi di cui il bambino non riesce a rendersi conto, oscuri impulsi a un fare violento, a penetrare, a mandare in frantumi , ad aprire in qualche luogo un buco. (3)
Dobbiamo subito chiarire a quale eccitamento sta facendo riferimento Freud, perché è ad esso che la vicenda degli impulsi è collegata: si tratta dell’eccitamento che ogni bambino vive quando, al culmine della maturazione sessuale primaria, incontra la questione della procreazione (da dove vengono i bambini?) e quella della relazione amoroso-sessuale dei genitori come condizione preliminare della gravidanza e della nascita. A quell’età, tutto questo desiderio di conoscenza si colora di una intensità straordinaria, e la curiosità che si sviluppa scatena un eccitamento al quale si accompagna la comparsa di questo bagaglio di oscuri impulsi che, curiosamente, Freud descrive come se avesse in controluce la mappa dei comportamenti trasgressivi delinquenziali più comuni dell’adulto: un fare violenza, cioè un malmenare, un penetrare, un mandare in frantumi, un aprire in qualche luogo un buco (effrazione, aggressione, scasso, ecc.). In realtà sappiamo che tutte queste spinte a comportamenti aggressivi e violenti, per il bambino si legano alla scoperta della sessualità e concretamente dell’atto sessuale tra i genitori. Questa scoperta, che porta il soggetto a fare i conti con la questione della propria origine, ha in sé un carattere traumatico e necessita di una qualche elaborazione. Il fare all’amore dei grandi viene quindi ricondotto, a prima vista e in prima approssimazione teorica, a qualcosa di simile a una lite, a una zuffa, comunque alla messa in opera di azioni capaci di soddisfare la batteria degli impulsi aggressivi sopra elencati: manipolare, penetrare, aprirsi da qualche parte un buco. Cosa può succedere a quel punto della vita di un soggetto? In termini più precisi: a quale scelta psichica può essere sollecitato (non “costretto”) un bambino, sulla base delle sue esperienze di vita più o meno traumatiche nel contesto familiare? Se per comodità del discorso escludiamo la scelta psicotica, rimangono due altre possibilità alla lavorazione del trauma originario: quella dell’angoscia e quella dell’eccitamento.
In un caso, il bambino può risolvere l’angoscia traumatica di base con la trasformazione della stessa in eccitazione. Questo comporta di conseguenza che il bambino si eccita e gode insieme al genitore con cui si identifica. A questo punto, nessuna inibizione verrà attivata a contrastare la scarica delle spinte aggressive che vengono quindi erotizzate. Il presupposto di una scelta di questo tipo è solitamente rintracciabile in un clima familiare fortemente eccitato, dove il rapporto con la legge ha la forma della trasgressione e dove la distinzione e l’interdizione al bambino dello spazio destinato all’intimità dei genitori non vengono attivati. Questi non si preoccupano generalmente di rendere il figlio spettatore delle loro effusioni amorose, delle loro liti o addirittura delle loro vere e proprio aggressioni (quasi sempre con la madre in posizione di vittima) che vengono vissute dal bambino come equivalenti di scambi sessuali veri e propri , non distinguendo ancora chiaramente a quell’età tra sessualità e aggressività.
In altri contesti, dove l’esperienza familiare è sorretta da un riconoscimento della legge, che non é in definitiva che la norma legata al tabù dell’incesto, e dove esiste una corretta distinzione e separazione degli spazi di vita degli adulti da quelli dei bambini ( uno spazio separato, un letto separato ), il figlio farà i conti con l’angoscia suscitata dall’incontro con la sessualità dei genitori, da una parte con una risposta teorica che vedrà la messa in opera del sapere errato ma vitale delle teorie sessuali infantili (tutti i viventi hanno il pene, i bambini nascono dall’ano, e il fare all’amore dei genitori è paragonabile a una zuffa), e dall’altra con la decisione di rinunciare a condividere l’esperienza degli adulti dai quali si separerà tracciando nello spazio una barriera che doterà di un congegno fobico (con l’appoggio a un animale di sua scelta di cui avere paura: da qui le zoofobie tipiche di questa età), capace di segnalargli il pericolo dello scavalcamento con lo scatenarsi dell’angoscia. In questo modo, anche le spinte aggressive trovano una loro regolazione di massima, consistente nell’inibirle nell’immediato e nel diserotizzarle sottoponendole, nel periodo della latenza, a un’assidua lavorazione che vedrà il bambino impegnato nel compito di dare loro una scarica ludica (vedi la funzione dei giochi di lotta e di guerra in latenza) o nell’incanalarle verso la costruzione delle cosiddette potenze psichiche: morale, pietà, compassione, disgusto, pudore, vere e proprie dighe contro il dilagare incontrollato dell’impulsività erotico-aggressiva.
Il bambino che si è disposto alla prima scelta sarà invece caratterizzato, nella latenza, dal fatto di non riconoscere la distinzione tra grande e piccolo, di sfidare continuamente l’adulto, di mentire, e dal non volere sentire ragioni a rinunciare alla sua regolazione psichica fatta di continui passaggi all’atto senza alcun residuo apparente di angoscia o di colpa. In questo caso, con la pubertà questi soggetti non faranno spesso altro che riproporre per la seconda volta, e in forma decisiva, questa loro scelta, con l’aggiunta della spinta sessuale genitale al bagaglio degli impulsi fino allora soddisfatti. E’ cosi che la sfida alla legge, condotta come vera e propria ragione di vita, finirà facilmente col portare questi soggetti in carcere. E qui essi non potranno che esportare la loro logica di sfida e di trasgressione, come residuo della loro esperienza traumatica non elaborata, nella speranza che l’istituzione carceraria non si disponga sulla loro lunghezza d’onda con agíti ugualmente violenti e traumatici, ma li intrattenga invece in una relazione sostenuta da una logica altra da quella della controsfida e dell’imposizione del braccio violento della legge.
Naturalmente anche il soggetto che ha fatto una scelta psichica in cui ha trovato spazio il riconoscimento della norma come barriera, è capace di trasgredire e può a sua volta finire in carcere dove però arriva per una strada diversa, nella quale la trasgressione è frutto di un precedente e inconscio senso di colpa di natura edipica, di cui la pena comminata nel contingente rappresenta l’espiazione, con il vantaggio dell’eliminazione del senso di colpa originario. La colpa, in questi casi, precede la pena, e la trasgressione, specie nei soggetti adolescenti, ha spesso la forma di un atto commesso proprio per essere scoperto in modo da garantire al soggetto la possibilità di indossare la divisa a strisce, chiuso nello spazio delimitato dalle sbarre del carcere.(4) Anche per questi soggetti, anzi a maggior ragione per questi che Freud chiama delinquenti per senso di colpa, può diventare salutare l’esperienza della detenzione nella misura in cui questa è in grado di favorire il riconoscimento della colpa e, attraverso il dolore per il male commesso, di rendere possibile al soggetto l’espiazione della stessa attraverso atti di bene operati o desiderati.

Il carcere e la sua funzione possibile

Se, pur nella inevitabile semplificazione, siamo riusciti a farci un’idea dei diversi giochi di forze che possono portare un soggetto a finire in carcere, mettendosi nella condizione di ricevere dall’esterno un contenimento per un agire che è diventato dannoso e distruttivo nel suo essere trasgressivo della legge, la questione che rimane aperta sul versante dell’istituzione rimane allora la seguente: nel drammatico scontro dei giochi di forze tra Neicos e Filía, l’istituzione carceraria con quale delle due forze intende allearsi? Se è vero che l’entrata in carcere rappresenta di per sé per il soggetto un cambiamento rispetto al suo passato, quale possibilità di cambiamento futuro intende favorire per lui l’istituzione carceraria ? Si farà rappresentante della Filía che tende a legare tutto ciò che esiste in unità sempre più vaste o sosterrà l’opera del Neicos che mira a dissolvere queste combinazioni e a distruggere le strutture cui esse hanno dato luogo?
In altre parole, un soggetto che entra in carcere, avrà la possibilità di fare esperienze di vita (nel senso forte di recuperare una capacità di legarsi in modo positivo agli altri e alla natura), oppure ne uscirà mortificato e riconfermato nel suo versante di individuo capace di seminare morte e in se stesso e intorno a sé?
Concretamente, si tratta di decidere se dare all’esperienza carceraria degli adolescenti ( ma anche dei detenuti in genere) la forma della semplice ( e sterile, quando non dannosa ) detenzione punitiva, piuttosto che quella di un tempo dove mettere alla prova una nuova capacità di fare i conti con le regole e con l’uso delle proprie energie vitali impiegate in progetti di lavoro e di riparazione dei danni provocati dai propri comportamenti trasgressivi.
Riflettere sul senso dell’esperienza carceraria significa fare i conti con questo nodo, nel quale si intrecciano le vicende di Neicos e Filía.

Note

  1. Freud S. (1937) Analisi terminabile e interminabile, Opere, vol. XI, pag. 529, Boringhieri, Torino.
  2. Per la riflessione su questi temi rimando alle formulazioni teoriche degli psicoanalisti S.Finzi e V.Finzi Ghisi, rintracciabili nei loro scritti apparsi sulla rivista “Il piccolo Hans”, in particolare nei N° 31, 69, 70.
  3. Di S.Finzi si vedano i testi:
    • “Il mistero di Mister Meister”, Dedalo, Bari 1983, in particolare cap. III.
    • “Nevrosi di guerra in tempo di pace”, Dedalo, Bari 1989, in particolare cap III, VII, VIII, XIII.
    • “Gli effetti dell’amore”, Moretti e Vitali, Bergamo, 1995, in particolare cap. IV e VI.
  4. Freud S. (1908), Teorie sessuali dei bambini, Opere, vol. V, pag. 458, Boringhieri, Torino.
  5. Si veda lo scritto di S.Finzi, Un uomo a strisce (epifania fra memoria e rimozione), in : Il piccolo Hans, N° 71, 1991.