Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

LA CURA DELLA CASA CHE SIAMO NOI


3 Mar 2024 - articoli

LA CURA DELLA CASA CHE SIAMO NOI

Da qualche tempo, anche se tardi e ancora troppo poco, ci stiamo occupando e preoccupando di prenderci cura della casa che ci ospita, del nostro pianeta terra. A questo proposito, penso si possa condividere la convinzione che non si possa realmente sviluppare la capacità di prenderci cura dell’ambiente senza essere in grado di prenderci cura di noi stessi. Vi riporterò un’espressione che illustra questo pensiero, e solo dopo vi riferirò chi ne è l’autore.
L’affermazione si riferisce alla possibilità di dare un contributo nuovo alla cura dell’ambiente a partire dalla necessità di attuare un cambiamento. Dice: “Non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, e non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone“.
Se questo è vero, allora può essere utile dedicare alcune riflessioni non solo all’ecologia in senso stretto ma anche all’ecologia della nostra mente, alla cura della nostra casa, intesa non come lo spazio dove abitiamo ma come la casa che noi siamo. Adesso posso dirvi che l’autore della citazione di prima è Papa Francesco, in quanto è un’affermazione contenuta nell’Enciclica Laudate Deum, ed è riferita, guarda caso, proprio alle questioni dell’ambiente alle quali diciamo di essere interessati.
Possiamo allora provare a dire qualcosa proprio a partire dalla prospettiva del cambiamento della persona, in vista di dare un contributo al cambiamento nella cura verso l’ambiente. Nella parola ecologia c’è un riferimento all’òikos, alla casa, discorso sulla casa, letteralmente, e, estensivamente, discorso sull’ambiente. Il riferimento alla casa ci permette di entrare in contatto con una famosa espressione di Freud: “L’Io non è padrone in casa propria“. Casa, appunto. Le domande che si presentano possono essere: ma chi è questo Io? Cos’è questa casa dove abita l’Io? E se l’Io non è padrone in casa propria, chi abita questa casa oltre all’Io, e chi è allora il padrone?
E’ così che siamo venuti a conoscenza di una nuova forma di sapere sulla persona, cioè su come siamo fatti da un punto di vista psicologico e mentale: la psicoanalisi appunto. Prima di Freud, si pensava il soggetto umano in una forma che lo vedeva come un’entità unica, compatta e indivisa, tanto che lo si era nominato anche come “individuo”, cioè, in greco, à-tomos, atomo, tutto d’un pezzo, potremmo dire, (l’atomo è stato chiamato così perché si pensava che fosse l’ultima particella della materia che non si sarebbe più potuto dividere: solo dopo abbiamo scoperto molte altre forme sub-atomiche); il soggetto come pensato individuo e rappresentato da un unico referente chiamato Io, ego in latino. Inoltre, questo Io era pensato come caratterizzato da una qualità specifica: la coscienza, che si esplicava nel pensiero attraverso idee chiare e distinte. La formulazione prototipica di questo soggetto prepsicoanalitico la troviamo nel famoso aforisma di Cartesio, questo filosofo eccelso del 600, che dice: “cogito ergo sum”, cioè, penso quindi sono. Il soggetto sottinteso è l’Io, l’ego: “ego cogito, ergo ego sum”.
L’essenza della persona umana era quindi pensata come espressa da un’unica istanza, l’Io, nella sua forma di piena e pura coscienza, pura capacità di conoscere. Tutto il resto che compariva nella realtà dell’esperienza di quel soggetto, non trovava posto se non come difetto o come scarto: il sogno, per esempio, era uno scarto senza valore e, altro esempio, il delirio era un difetto di funzionamento grave, una patologia che richiedeva non una cura ma una emarginazione, che consentisse alle persone normali di sentirsi protette: da qui l’istituzione emarginante dei manicomi.
Freud, alla fine dell’ottocento, come medico si avvicina alla sofferenza mentale, cioè a quelle forme di malfunzionamento dell’Io coscienza di Cartesio, e, nel mettere a punto dei nuovi strumenti di cura – che inizialmente mutua dalla pratica dell’ipnosi, come si faceva negli istituti psichiatrici più avanzati del tempo – formula delle nuove ipotesi teoriche sulla natura del soggetto umano e sul suo funzionamento psichico. Scopre così che, a partire dal materiale scartato dalla psicologia del tempo, cioè il sogno e il delirio, si delinea una nuova figura della persona umana. Questa non è più una cosa sola, indivisa, ma è un’entità plurima, composta da diverse parti, che chiama istanze psichiche, e caratterizzato da esperienze di pensiero e di azione non tutte regolate dalla coscienza, ma soggette all’influsso di fattori inconsci e preconsci.
Ecco in sintesi la nuova figura della persona: non più solo un Io unico ma un soggetto pluriarticolato: c’è l’ES, la forma primaria del soggetto, dal quale si differenzia prima un Io e, poi, un Superio. Inoltre l’Io non ha più solo vissuti di pura coscienza ma ha più forme di esperienza, caratterizzate dalla presenza dell’inconscio, sia nella sua forma più marcata, come nel sogno, (che diventa il punto centrale e il materiale più prezioso per capire come siamo fatti), oppure l’inconscio come elemento che si mescola alla coscienza e determina varie forme di esperienze dai contorni non più così limpidi come prima, come i lapsus ,le dimenticanze, le paraprassie, eccetera, e dà luogo a varie forme di pensieri e discorsi non del tutto logici, come i deliri.
È così che prende forma il senso dell’espressione che vi ho riportato prima: l’Io non è padrone in casa propria; affermazione sorprendente e difficile da digerire per una cultura, come quello occidentale, che aveva fatto della coscienza, della razionalità del lògos e della padronanza dell’Io il suo credo fondamentale. Ma chiediamoci: in che senso l’Io non è padrone? Se non è padrone, qual è allora la sua funzione? Rimane una funzione centrale e fondamentale, ma che si esplica non più nell’essere padrone del funzionamento psichico ma nell’essere un servo, un mediatore. Rimane decisivo nel mediare, appunto, tra tre fattori. Primo: le richieste pulsionali primarie e fondamentali espresse e avanzate dall’ES. Secondo: le richieste vincolanti del Superio che, in quanto coscienza morale, detta all’Io le regole del suo comportamento e, nel caso non le rispetti, lo punisce con l’angoscia del senso di colpa che gli toglie la possibilità di vivere sereno, fino a portarlo alla disperazione nei casi più gravi. Terzo: deve mediare con la realtà esterna: c’è un mondo là, fuori dell’Io, che richiede di essere riconosciuto e che impone delle condizioni per la soddisfazione dei suoi impulsi e dei suoi desideri.
Se l’Io non si dimostra all’altezza del suo complicato compito di buon mediatore, le conseguenze sono segnate: non potrà stare bene e sentirsi in pace, ma andrà incontro a forme più o meno gravi di disagio, di malessere che l’ambiente etichetterà con un minuzioso elenco di malattie psichiche, di patologie, lasciando all’Io la responsabilità di metterci mano per la loro eliminazione o elaborazione, in altre parole per la loro cura.
Voi capite che se noi, cioè i tanti Io che noi siamo, non riusciamo a essere in pace con noi stessi, se stiamo male, non è facile credere che avremo la possibilità e la disponibilità di prenderci cura dell’ambiente ma, al contrario, sarà più facile che scaricheremo sull’ambiente, ( inteso come spazio sociale delle relazioni familiari, oltre che quelle sociali più allargate e, anche, sullo spazio fisico ambientale) le nostre sofferenze individuali . In questo modo ci trasformiamo da agenti di cura in agenti di sofferenza, degrado, distruzione, per ciò che ci sta intorno. La nostra mancanza di pace interiore si travaserà all’esterno seminando disagio in forme varie, che possono andare dal fastidio all’irritazione, alla polemica, alla rabbia, alla violenza, fino ad arrivare alla guerra.
Da queste riflessioni, per chi è disposto a condividerle, ne consegue che, se vogliamo occuparci della cura dell’ambiente, dobbiamo prima mettere mano alla cura della nostra casa, intesa come la casa che siamo noi e come la casa nella quale viviamo in quanto genitori, figli e fratelli. In altre parole: dobbiamo mettere mano alla manutenzione dei nostri affetti, a partire da noi stessi, da quelli che convivono con noi, in una serie di cerchi che si allargano come le onde provocate da un sasso lanciato in uno specchio d’acqua, fino ad arrivare alla cura della casa che ci contiene tutti.
La prima cura che dobbiamo sviluppare è quella finalizzata a conquistare e a custodire il sentimento della pace dell’animo e della mente, chiamata anche serenità o, ancora, Letizia, come la chiamava il grande filosofo Spinoza, oppure Gaudium, come lo chiamavano i latini, che noi abbiamo tradotto con gioia. La gioia è una cosa seria, che purtroppo noi siamo arrivati a banalizzare perché l’abbiamo scambiata con forme di piacere effimero, quando non addirittura con il proposito di isolarsi dai problemi degli altri per non essere disturbati.
Quando si parla di essere “operatori di pace” è di questo che si parla: non si può esportare una pace che non si ha. Devo però sgombrare il campo da un possibile equivoco legato alla mia affermazione che diceva: per occuparsi della cura dell’ambiente bisogna prima occuparsi della cura in casa nostra. C’è da fare una rettifica: quel prima è da sostituire con un altro avverbio che è: insieme. Ci si può occupare veramente della cura dell’ambiente solo se, insieme, ci si occupa della cura di sé. In altre parole: ci si prende cura di sé solo se, insieme, ci si prende cura degli altri. Per chi di voi è credente, è questo il senso legato al concetto dell’esistenza di un Dio incarnato, cioè di un Dio che chiede di essere amato non in Sè (non esiste il puro amore di Dio) ma nel suo essere presente nell’altro; e oggi la Chiesa è arrivata a dire ai suoi fedeli che Dio è presente in tutto il creato e che esistono dei peccati contro l’ambiente (questo è il senso dell’enciclica Laudato sì).
E’ importante cogliere bene il senso del concetto di cura, che non va confuso con quello di terapia, nel senso che la cura è qualcosa d’altro e di più della semplice terapia. Lo potete vedere chiaramente esemplificato nella parabola del Buon Samaritano del Vangelo. Ricordate tutti che il Samaritano “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”(Lc. 10,34). Vengono specificate due operazioni: una di natura medicale-terapeutica ( nominata con il verbo therapèuo), che riguarda il medicare le ferite, e l’altra è indicata come il “prendersi cura di lui” (con il verbo epimelèomai). La prima ha come oggetto i sintomi di un disagio, le ferite, mentre la seconda ha come oggetto la persona: si prese cura di lui.
Abbiamo prima parlato della possibilità di essere operatori di pace ma, per esserlo, bisogna avere a disposizione delle energie. E’ per questo che vi segnalo (come ho esplicitamente argomentato nel mio libro: Di chi è la colpa?) la necessità e la convenienza di non sprecare le nostre limitate energie nella facile economia della morale della colpa (con il pervasivo senso di colpa mortificante), ma di valorizzarle in una più impegnativa etica della responsabilità, che non ci salva dalla possibilità di sbagliare, ma che ci chiede di occuparci della riparazione dei danni che provochiamo agli altri invece che di sprecare energie nella sterile riparazione narcisistica della nostra immagine ideale macchiata dalla colpa.
Per finire: non possiamo fare a meno di una casa per abitare, ma questa casa ci chiede di essere curata. Siccome la nostra casa non è solo fatta dalle quattro mura e dal tetto che abbiamo sulla testa ma è fatta di tutto il nostro pianeta blu (così lo vediamo dallo spazio), allora ha un senso e un valore che decidiamo di riflettere sul modo in cui possiamo, insieme, prenderci cura della terra parlando di ecologia: discorso sulla casa.

Sergio Premoli