22 Set 2019 - articoli
1.La tentazione del “troppo”
Possiamo porre in apertura questa affermazione: “L’adolescenza è troppo tentante, per tutti”. Si tratta ora di illustrarne il senso a partire dal recupero di una categoria, quella di “tentazione”, tanto cara a una riflessione, non poi lontana come si può pensare, la quale non perdeva occasione per legare strettamente tra loro le vicende dell’adolescenza con quelle delle tentazioni che l’avrebbero caratterizzata come un marchio di fabbrica. Per quella prospettiva, la tentazione era per sua natura “sessuale” e il soggetto era per definizione l’adolescente. Non è a questa tentazione che si vuole qui fare riferimento, cioè a una tentazione che rimanda a un ambito essenzialmente morale, religioso o laico poco importa: ci si vuole riferire invece a qualcosa di strutturale, qualcosa che rimanda cioè alla natura delle cose, sempre ovviamente “interpretate” all’interno di un preciso orizzonte di senso. Per facilitarci la comprensione, possiamo fare ricorso all’analogia contenuta in una frase come questa: “in primavera, tutti sono tentati di vestire abiti più leggeri”. Se è vero che anche in questa accezione semantica la categoria di tentazione mantiene in campo il riferimento alla decisionalità dell’individuo, è però anche evidente che contiene in sè essenzialmente il rimando a un ordine delle cose che spinge in una direzione piuttosto che in un’altra, che sarebbe inopportuno non riconoscere o addirittura contrastare. Nella tentazione di vestire leggero all’arrivo dei primi tepori primaverili sappiamo che c’è in azione un positivo meccanismo di autoregolazione termica del nostro corpo che è utile riconoscere e assecondare anche se è altrettanto importante far entrare in gioco il riferimento a una “giusta misura”,che è sempre di natura individuale. Il desiderio di uscire dal grigiore invernale potrebbe infatti spingere a un eccessivo alleggerimento dei vestiario, con conseguenze sgradevoli se non addirittura pericolose.
Ebbene, è in questo senso che si intende qui fare riferimento alla tentazione “dell’adolescenza” e non “degli adolescenti”: il rimando è a un elemento strutturale che ci porta a sostenere che l’adolescenza, intesa come particolare momento del processo evolutivo psichico di un soggetto, contiene in sè, sia per chi la vive che per coloro che ne hanno a che fare, una tentazione che si può definire la “tentazione del troppo” o della “dismisura”. La risposta a questa tentazione non è però la repressione o la rinuncia, come era in gioco in una prospettiva di tipo morale, ma è il riconoscimento e la regolazione. Questa distinzione è decisiva perchè segna la concezione che gli adulti hanno dell’adolescenza e l’esperienza dell’adolescente stesso: mentre infatti nel primo caso avremo a che fare con un adolescente che “subisce e patisce” la propria condizione, nel secondo abbiamo invece a che fare con un adolescente che agisce e che si sente coinvolto in un progetto di regolazione vitale. Messi così in campo gli elementi dei discorso, si tratta ora di andare a vedere in che cosa consista questo “troppo” e quali forme di lavorazione si possono ipotizzare per riportarlo entro dei confini augurabili di “accettabilità”, o meglio di vivibilità, in quanto è questo che interessa alla psicoanalisi: il riferimento a un criterio di economia vitale individuale ma anche sociale e, in definitiva, cosmologico, in quanto riguarda la posizione del soggetto nell’economia della natura.
2. L’”eccesso”chiamato pubertà.
Prendiamo qui il termine . pubertà” come indicatore dei processi di trasformazione somatica sui quali si appoggia quel tempo più o meno lungo di elaborazione psicologica che chiamiamo adolescenza. I cultori delle scienze biologiche si indignerebbero a sentire qualcuno affermare che la pubertà contiene in sè un “ eccesso”, perchè si affretterebbero a spiegarci che nessun processo di maturazione fisiologica può essere ritenuto eccessivo in quanto risponde, pur nella diversa intensità, a un programma evolutivo che, in quanto naturale, non può che essere “adeguato” e incapace di essere, di per sè, fonte di rischio. Questo se c’è può essere solo accidentale, dovuto cioè a circostanze non favorevoli o addirittura patologiche. In realtà, se andiamo a vedere come gli uomini di ogni tempo e luogo hanno trattato questo momento evolutivo cruciale che è la pubertà, ci accorgiamo che hanno sempre avuto la convinzione che andasse in qualche modo “medicato”, addomesticato attraverso una serie di riti e di pratiche che erano la testimonianza che non si trattasse di una semplice tappa evolutiva ma che ci fosse dell’altro. Noi sappiamo oggi che dove compare qualcosa di costante e di uniforme negli usi e nel costumi dei popoli, là ci deve essere qualcosa di strutturale e non di accidentale o accessorio. La psicoanalisi ha contribuito a illuminare in forma nuova la natura strutturale, sul versante psichico, della pubertà riconoscendola per la prima volta non come “l’inizio” ma come la “ripresa”, il secondo inizio della vita sessuale umana. L’“inizio in due tempi” della sessualità è una scoperta della psicoanalisi, in corrispondenza dei “due culmini” dello sviluppo sessuale, il primo intorno ai 35 anni e il secondo con la pubertà, inframezzati da quel periodo evolutivo tipico della specie umana che è la “latenza”. Questa scoperta si completa però con l’aggiunta che la natura dei due culmini è a suo modo traumatica e che il soggetto nasce e si struttura in base alle forme con cui riesce a lavorare il trauma che, per la psicoanalisi, non è da confondere con dei “fatti traumatici” come seduzioni, violenze, maltrattamenti e via dicendo, tutti eventi visibili e avvertiti verso i quali in qualche modo l’apparato psichico è predisposto per affrontarli. Trauma è innanzitutto qualcosa che “passa silenzioso e inavvertito” e che, una volta penetrato nell’apparato, sviluppa effetti devastanti. E’ in questo senso che i “due culmini” dello sviluppo sessuale hanno in sè una connotazione traumatica, in quanto hanno il potere di “cogliere di sorpresa” un apparato non ancora attrezzato a fare i conti con l’impatto violento di una spinta sessuale che raggiunge improvvisamente dei picchi di intensità terribile. Nella pubertà questo “eccesso” evolutivo diventa ancora più visibile che nel primo culmine e assistiamo alla comparsa di segnali di un’evidenza tale da non lasciare dubbi: dal menarca alla polluzione spontanea, dallo sviluppo dei genitali e del seno all’allungamento degli arti e della statura, dal cambio della voce alla crescita dei peli pubici e facciali. Non è solo una questione di “facciata” come si potrebbe pensare: c’è di mezzo la questione dell’identità soggettiva che “si appoggia” anche sull’immagine corporea che diventa, ora più che mai, il tramite cui viene affidato il compito di veicolare un desiderio dell’altro, che è essenzialmente l’altro sesso, che si presenta con un’intensità che non ammette di essere negata. Questo momento evolutivo che i medici continuano giustamente dal loro punto di vista a ritenere “naturale”, per la psicoanalisi non ha invece niente di garantito naturalmente e a provarlo c’è la diversità degli esiti possibili che vanno dalla cosiddetta normalità, pura “finzione ideale” per la psicoanalisi, all’estremo opposto costituito dai crolli drammatici di natura psicotica, piuttosto che alle mediazioni più o meno riuscite di una nevrosi limitante le possibilità di amare del soggetto. E dove collocare altre soluzioni, a loro modo “tipiche” di una vicenda adolescenziale, come ad esempio la dipendenza psichica dall’assunzione di sostanze, i vari comportamenti antisociali e distruttivi, i passaggi all’atto nella forma dei suicidio? Queste soluzioni rimandano, anche se in forma differenziata, alla struttura psichica della perversione. Si delineano così i principali tipi di scelte psichiche che un soggetto ha a disposizione e che non sono infinite in quanto si esauriscono nella psicosi, nella nevrosi e in quella scelta reinventata dalla psicoanalisi che è la perversione, che non è da confondere con la messa in atto di comportamenti sessuali perversi nè tantomeno con la categoria di perversione morale propria di una visione religiosa della vita. La perversione per la psicoanalisi è, secondo la chiara definizione freudiana, il “positivo della nevrosi”, cioè la scelta che presenta, analogamente a quanto avviene in un procedimento di sviluppo fotografico, come “chiaro” le stesse scelte che la nevrosi presenta come “scuro”: è l’agire al posto del pensare, la scarica immediata invece dell’azione che nasce da una sospensione in cui si è inserita l’azione del giudizio; è lo scavalcamento delle barriere piuttosto che il tenerne conto. In altre parole, è un accedere alla scarica pulsionale senza l’avvertimento del segnale d’angoscia che faccia presente al soggetto quanto di mortifero e di distruttivo contiene in sè una regolazione sessuale che non tiene conto della barriera dell’incesto. Ciò che è quindi in questione nell’adolescenza, rimanda alle forme di regolazione che un soggetto può mettere in atto per far fronte a qualcosa che lo sollecita in modo talmente pressante da essere avvertito come “pericoloso”. A questo pericolo l’adolescente si sente esposto e l’angoscia ne è il segnale per eccellenza.
3. L’adolescenza come “secondo tempo” delle scelte psichiche.
La pratica clinica della psicoanalisi ci presenta il dato che l’angoscia ha già fatto la sua comparsa nella storia dei soggetto in funzione di “segnale d’allarme”, e non semplicemente come reazione riflessa ad uno stimolo esterno, attorno ai quattro anni, cioè in corrispondenza dei primo culmine dello sviluppo sessuale del bambino. E’ proprio in corrispondenza di questa età che Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi, riprendendo e sviluppando un nucleo teorico freudiano, hanno collocato il primo momento decisivo della vicenda psichica dei soggetto e delle sue scelte, in relazione a quella costruzione denominata “luogo della fobia”. Questa costruzione che compare nella vita di ogni bambino e viene reperita nell’analisi degli adulti, è da loro definita come “1a prima rappresentazione esterna dell’apparato psichico”, e compare collocata nello spazio del bambino con la creazione di una “barriera” che viene posta per separarlo dalla sessualità dei genitori avvertita come minacciosa per la propria integrità psichica. A custodia di questa barriera, “molle”, in quanto deve separare ma anche permettere un accesso, ogni bambino, come il piccolo Hans del caso freudiano, metterà un animale e ne farà l’oggetto della propria fobia: all’animale egli affiderà il compito di assumere su di sè, in forma spostata, la minacciosità della figura paterna, in modo da poter trovare un posto nel mondo. Con questa soluzione il bambino si assicura la possibilità di un orientamento che, pur essendo “limitante” in quanto deve tener conto della barriera, è in grado però di garantire una sopravvivenza non solo a lui ma anche a tutti gli altri esseri viventi che egli ha imparato a collocare nel mondo con l’importantissima distinzione tra animato e inanimato. Ogni spinta in direzione dello spazio sbarrato dell’amore incestuoso gli verrà segnalata dall’angoscia che l’apparato psichico ha imparato a utilizzare come “segnale di allarme” capace di salvaguardarlo dal rischio che, inavvertitamente e silenziosamente, la verità della propria origine come origine dal godimento dei padre, possa penetrare nell’apparato squassandolo, come avviene nel caso della psicosi infantile. Il bambino riesce a superare lo scoglio della psicosi anche grazie al fatto che affronta e risolve per la prima volta la questione della “misura”: di fronte all’adulto, al “grande” che può schiacciarlo, egli sceglie per sè la misura del “.piccolo”. Questa misura, che diventa 1’“unità di misura” del soggetto, il bambino la depositerà nella madre che è chiamata a sanzionarla e a custodirla, pena la salute psichica del bambino. La scelta della perversione invece, che già può essere fatta una prima volta in corrispondenza dei primo culmine a causa di una mancata corretta posizione dei genitori, consisterà proprio nell’assunzione da parte del bambino della misura del “grande” e nello scavalcamento della barriera, o meglio di quelle che Freud indica come le “barriere psichiche” del pudore, del disgusto, della compassione e della morale. Il soggetto che si colloca in questa posizione avanzerà in direzione della pubertà senza la possibilità di utilizzare l’angoscia come segnale d’allarme, senza rimozioni e inibizioni, con il rifiuto di qualsiasi frustrazione e senza disponibilità a un lavoro psichico del pensiero. E’ il bambino che, in latenza, pone gravissimi problemi di educabilità e che tiene in scacco l’adulto, genitore o educatore che sia, in attesa di “sfidarlo” definitivamente nell’adolescenza, quando avrà acquistato definitivamente un corpo “da grande”. Sappiamo che il rischio, se la posizione perversa dovesse entrare in crisi, sarà il crollo psichico che può sorprenderlo o all’entrata nella pubertà o più avanti, per esempio attorno a quell’altra età cruciale che sono i 18 anni. Il soggetto che, attorno ai quattro anni, è riuscito ad optare per una scelta nevrotica, grazie alla costruzione del luogo della fobia e alla messa a punto di quel sapere geniale costituito dalle teorie sessuali infantili ( tutti i viventi hanno il pene, si nasce dall’ano, il rapporto sessuale è una zuffa ), sapere “falso ma vitale”, utilizzerà invece la latenza come un periodo di intenso lavorio psichico finalizzato a “rinforzare” quelle barriere psichiche che la perversione si esercita invece a .”saltare”. In questo modo, il soggetto si attrezza a far fronte all’impatto, violento e improvviso, “eccessivo” abbiamo detto prima, della pubertà. Se la costruzione sarà sufficientemente solida, l’angoscia che avvolgerà il soggetto, e che è essenzialmente legata alla elaborazione di una spinta sessuale genitale “adulta“, cioè capace di generare, potrà essere lavorata e sostenuta, anche se con dei costi più o meno pesanti di inceppi e inibizioni. L’angoscia della pubertà, in tutte le sue forme palesi e mascherate, segnala il ritorno e la ripresa di una vicenda che il soggetto ha già affrontato intorno al quattro anni e che ora lo impegna a titolo nuovo, quello implicato nel passaggio alla posizione di adulto, di nuovo impegnato a fronteggiare la minacciosità della figura paterna. Misure, grandezze, stature, in relazione a una propria identità e a una propria posizione nel mondo: è questo il campo di prova della lavorazione psichica dell’adolescente. Il referente utilizzato in forma “teatrale”, non in senso negativo ma nel senso di una “scena visibile della rappresentazione”, sarà il corpo. Attorno al corpo dell’adolescente ruoteranno questioni serie di statura, di grossezza, di lunghezza, di bellezza e di forma. Importanti nuclei da elaborare ma con una lavorazione che, avendo a che fare con un oggetto che è per sua natura caratterizzato da un “troppo”, sarò segnata dal marchio della “dismisura”.
Avendo perso le misure della precedente regolazione, l’adolescente si ingegna in tutti i modi a sperimentare nuove forme di misurazione nel tentativo di ritrovare un equilibrio vitale soddisfacente nelle relazioni col mondo, per tutta la durata di quel periodo, oggi diventato “eccessivarnente lungo”, che è la sua adolescenza.
4. La “dismisura” nel rapporto educativo.
E’ fin troppo facile constatare come, di fronte al problemi posti dall’adolescente, gli adulti rispondano rimandandogli la valutazione di una “sproporzione” tra realtà e vissuto (es. “Ma che cosa vuoi che sia un chilo in più o cinque cm. in più o in meno?”) e, perdendo a loro volta il “senso della misura”, tendono inevitabilmente o a screditare, a volte fino al limite dei ridicolo, quanto è fonte di angoscia per l’adolescente, oppure arrivano a “drammatizzare” anche le scelte più semplici dello stesso. Questo è il punto importante per chi ha fatto una scelta professionale di tipo educativo: l’educatore, come in prima istanza il genitore, quando entra in relazione con un adolescente tende a ritenere che le questioni della posizione adolescenziale non lo riguardino più e si dispone a trattare l’adolescente come un soggetto che deve essere aiutato a superare questo “eccesso febbrile” che è l’adolescenza, per poter accedere alla quiete della maturità dell’adulto. Paternalismo o, all’opposto, maternage e moralismo si sprecano, lasciando a dir poco indifferenti gli interessati che preferiscono rifugiarsi rivendicativamente” nel gruppo dei pari dove la gravità delle questioni è invece capita e condivisa. Ciò che qui interessa sottolineare è che la reazione degli adulti educatori è generalmente “contagiata” dalla dismisura dell’adolescenza e finisce per non essere in grado di favorire un processo di evoluzione positiva dei soggetto. Le ‘forme” della dismisura rintracciabili nella prassi degli educatori meriterebbero di essere pensate molto più seriamente di quanto non si sia fatto finora e probabilmente questa riflessione permetterebbe di fare luce sul mondo “negato” dei desideri inconsci degli adulti che utilizzano spesso l’adolescente come “pretesto” per accedere a forme di soddisfazione pulsionale che non riescono a riconoscere e ad accettare per se stesse. Si arriverebbe in questo modo a capire meglio perchè così spesso le reazioni degli educatori sono “speculari” all’ambivalenza e alla oscillazione propria degli adolescenti, oscillando appunto da una “rigidità” dei ruoli a un “cameratismo” amicale, da un distacco giudicante da moralizzatore a una complicità seduttiva da compagno di strada e di confidente. In altre parole, la tentazione dell’adolescenza è essenzialmente, per l’educatore, spinta a perdere la misura e tendenza a “subire” più che a padroneggiare la pressione cui lo sottopone l’adolescente. Il compito che attende un educatore, che è nello stesso tempo un compito di natura professionale e di natura etica, è quello di dotarsi, tramite un’adeguata formazione, di una “forma di regolazione” capace di fargli riconoscere l’importanza e il peso di una posizione adolescenziale senza però farlo entrare in una oscillazione speculare, e come tale potenzialmente perversa, rispetto all’adolescente stesso, anche quando questa oscillazione è di segno apparentemente positivo in quanto “consonante”. Questo, a ben vedere, è anche il compito cui devono assolvere i genitori degli adolescenti ed è singolare che le ricerche dedicate allo studio dei problemi della relazione adolescentegenitori siano anch’esse arrivate a individuare come centrale la questione di una “nuova regolazione delle distanze” che i genitori e i figli, ognuno in forma propria, sono chiamati a mettere a punto.
5. Un indicatore di misura e uno strumento di lavoro.
Si potrebbe fornire, in conclusione, un piccolo elemento di carattere diagnostico che l’educatore potrebbe provare a utilizzare per misurare la sua posizione in rapporto all’adolescente: è ovviamente un indicatore di misura, anche se può essere utilizzato solo in negativo. Consiste in questo: si tratta di individuare, nelle proprie scelte educative, ogni volta che compare il segnale di superamento di un limite che si potrebbe definire il “ limite del non poter fare a meno di”. Ogni volta che un educatore vede comparire all’orizzonte del suo operare qualcosa che ha il carattere di una coazione, di un “non poter fare a meno di” qualsiasi cosa, sia essa aiutare, consigliare, confortare, sostenere, insegnare, punire e via di seguito, ebbene, questo può essere il segno che qualcosa dell’ordine di una “giusta regolazione” è andato perso e che, nell’interesse di tutti, va ritrovato. A ben vedere, quanto di allarmante compare in rapporto al “non poter fare a meno di “ è, al di là dell’apparente gioco di parole, la predominanza assoluta del “fare” rispetto alla messa in opera di un lavoro del pensiero che comporta invece sospensione dell’azione, riflessione, progettazione, astinenza.
Se torniamo ora all’affermazione iniziale:”I’adolescenza è troppo tentante, per tutti”, siamo ora in grado di specificare meglio la natura di questa tentazione. Si tratta di una spinta “smisurata” al fare, all’agire, in sostituzione di un pensare. Si impone però a questo punto una questione che non può essere elusa: come fa un educatore ad avere il tempo per pensare quando è preso nella realtà di una relazione che nella maggior parte dei casi gli impone dei tempi drammaticamente stretti per decidere? Questo vale soprattutto nelle relazioni con l’adolescente il quale è maestro nella tecnica di sorprendere l’educatore per costringerlo ad agire senza avere il tempo per pensare. E’ proprio in rapporto a questo aspetto che si impone con forza l’indicazione della “supervisione come strumento di lavoro” per l’operatore professionale educativo. Quanto passa nell’immediatezza dell’azione lasciando dei residui più o meno consistenti nel vissuto dell’operatore, deve poter trovare un momento, possibilmente ritagliato all’interno dell’orario di lavoro, che consenta all’operatore stesso, con l’aiuto di un terzo, estraneo alla relazione vissuta, di “metabolizzare” questi residui che finirebbero altrimenti per portarlo a livelli di usura psichica difficilmente sopportabili. Le esperienze di burnout degli operatori socioeducativi sono lì a dimostrare la verità di questa asserzione e a reclamare il superamento della scarsa importanza che ancora oggi viene attribuita a quel momento essenziale della professione educativa che è la supervisione.