Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

L’Operatore e il rapporto con la diagnosi in un progetto di assistenza e di cura


6 Mar 2020 - articoli

L’Operatore e  il rapporto con la diagnosi in un progetto di assistenza e di cura

1.Premessa

Di fronte a qualsiasi forma di disagio, sia esso fisico che psichico, proprio o altrui, la prima necessità che viene avvertita è quella che fa porre la domanda: di che cosa si tratta? Acquisire gli elementi e fornire una risposta fa parte di un processo diagnostico che viene assunto logicamente come il primo tempo di un processo di assistenza e di cura.
Se l’istanza di acquisire una diagnosi risulta quindi come qualcosa di inevitabile e a suo modo necessario, non è però privo di significato aprire uno spazio di riflessione sui possibili modi in cui degli Operatori dell’assistenza e della cura, di qualsiasi tipo si tratti, si pongono in relazione al senso da dare alla diagnosi stessa. Ci sono seri motivi per pensare che, se il momento della cura non può essere disgiunto da quello della diagnosi, il modo di intendere la diagnosi ha degli effetti importanti sulle pratiche di cura.
In questo lavoro mi soffermerò in particolare proprio sul primo dei due momenti del processo in quanto mi sembra essere quello che viene di solito trascurato non tanto nel suo aspetto “tecnico”, cioè di “come si costruisce” una diagnosi, ma nel suo aspetto “economico”, cioè di “come viene utilizzata” la diagnosi in quanto tale in rapporto a un intervento di assistenza e di cura.

2.La necessità di distinguere senza separare

Il presupposto che richiede e sostiene il ricorso alla diagnosi è quello costituito da una logica binaria che legge la realtà nei termini di normalità e patologia. Il ricorso a una simile logica non viene messo normalmente in questione ma viene anzi confermato dai confronti dialettici che si sono aperti, nel campo delle scienze mediche e psicologiche, attorno ai diversi modi di intendere la normalità e la salute, da una parte, e la patologia e la malattia dall’altra, senza la possibilità di arrivare a un accordo.
Un contributo per il superamento di questa logica binaria normale/patologico, per quanto riguarda il campo del disagio psichico al quale diamo una valenza prioritaria in questo contesto, è stato fornito da Freud il quale, a partire dalla decisione rivoluzionaria di assumere come paradigma di funzionamento dell’apparato psichico quell’”anomalia” costituita dal pensiero e dal lavoro del sogno, non ha mai perso l’occasione per prendere posizione a favore di un argomentato superamento del concetto di normalità rispetto alla sua presunta valenza teoretica.
L’esigenza che ha avvertito Freud e, con lui, tutti i grandi pensatori prima di lui, in particolare Darwin, è formulabile in questo modo: Come è possibile pensare la molteplicità delle differenze senza operare delle separazioni? Da un certo punto di vista non abbiamo alternative: il nostro pensiero avverte la necessità di distinguere perché altrimenti la realtà ci si presenta come un caos. In tutte le esperienze di pensiero dell’umanità di cui abbiamo traccia vediamo che l’incipit è sempre lo stesso: per prima cosa si dà conto di come, a partire da un caos primigenio, il pensiero è in grado, operando delle distinzioni, di dare forma a un cosmo.
Un esempio per tutti, perché per la nostra cultura il più noto e familiare,è costituito dal racconto biblico: dal caos iniziale ci viene detto come si passa alla costituzione di un cosmo attraverso un processo di “distinzione” reso con le immagini poetiche del “separare”. Da una massa iniziale senza forma e vuota, il tutto prende forma attraverso successivi atti di ordinamento cosmologico:”separò la luce della tenebre; separò il giorno dalla notte; separò le acque superiori dalle acque inferiori; separò le acque dall’asciutto” e così di seguito.
Il gesto del pensiero che “distingue” è quindi fondante ma a questo punto si apre il problema successivo che va nella direzione a prima vista opposta: come tenere insieme quello che è stato distinto senza che si operino delle separazioni, delle divisioni, delle scissioni, dei tagli?
Il pensiero occidentale ha sviluppato una forte capacità di distinguere, cioè individuare oggetti sempre nuovi di conoscenza, ma non ha sviluppato una pari capacità di mantenere uniti gli oggetti individuati, e questo fatto ha prodotto una serie di conseguenze non positive nella nostra storia, di cui mai come oggi siamo in grado di renderci conto e di valutarne la portata negativa.
Il nostro pensiero ha prodotto una serie di separazioni a vari livelli: tra popoli civili e popoli barbari e primitivi, tra uomini e donne, tra adulti e bambini, tra sani e malati e, ad un altro livello, tra uomini e animali, tra cultura e natura, e via dicendo.
La questione della normalità la possiamo usare quindi come paradigma per valutare la possibilità di utilizzare il nostro pensiero come strumento capace di distinguere ma anche di “tenere insieme” piuttosto che “separare – disgiungere” e, in ultima analisi, di “contrapporre”, per esempio salute e malattia, normalità e patologia. Vedremo l’estrema portata di una simile alternativa e l’importanza di vincere questa scommessa.
Come possiamo formulare chiaramente questa alternativa? Possiamo farlo mettendo in campo un pensiero che “distingue separando“ e mettendo due elementi in opposizione escludente nella forma di un “aut – aut”, piuttosto che un pensiero capace di “distinguere tenendo insieme” i due elementi nella forma del “et – et”. Se utilizziamo la lingua greca, possiamo ricorrere all’alternativa linguistica rappresentata da uno steso verbo specificato da due prefissi diversi: dia-ballo e sum-ballo. Il primo significa “disgiungere, disunire” e il secondo “congiungere, riunire”. Il participio passato dei due verbi ci suona subito familiare e chiarificatore: diabolicòs, diabolico ( separato, disgiunto) e sumbolicòs, simbolico ( simbolico,tenuto insieme). Non è un caso che la “disgiunzione” sia stata legata semanticamente alla figura del diabolico, perché effettivamente tale movimento partecipa di un processo di mortificazione, che prelude in definitiva alla morte, mentre quello simbolico rimanda alla possibilità di creare legami sempre più vasti e articolati e rimanda alla vita.

3. La prospettiva psicoanalitica sulla normalità

A fronte di una modalità di pensiero che accetta come teoreticamente valida la distinzione separante tra normalità e patologia, , la psicoanalisi ci offre una nuova prospettiva a partire non da una base filosofica-idealistica ma fondando le proprie asserzioni sulla base empirica costituita dalla pratica clinica. Affrontando la questione della normalità Freud ne modifica lo statuto teorico non ritenendola reale e quindi possibile ma definendola come una “finzione ideale” e ne parla prendendo come oggetto di riferimento l’Io normale che è l’emblema della normalità:
“l’Io normale è, come la normalità in genere, una finzione ideale. Non è una finzione, purtroppo, l’Io anomalo. Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale; il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per un tratto o per l’altro, in proporzione maggiore o minore e le misura della lontananza da uno e della vicinanza all’altro degli estremi della serie sarà assunta provvisoriamente a criterio di ciò che abbiamo cosi approssimativamente definito “alterazione dell’Io”.
Gli elementi nuovi contenuti in questa definizione sono schematicamente i seguenti:
a) la normalità è una finzione: il termine finzione è da prendere nel senso etimologico di “fictio”, cioè una costruzione ipotetica del pensiero che si può utilizzare proficuamente per cogliere alcuni aspetti della realtà. Si oppone in questo contesto al concetto di “reale-concreto” che invece è presente nelle altre prospettive teoriche, per le quali l’Io normale, l’Io maturo è considerato un oggetto realmente riscontrabile nella realtà;
b) la normalità mantiene una relazione con l’ideale: questo significa che l’utilità di questo concetto consiste nel mantenere il riferimento del soggetto alla questione dell’ideale. Il richiamo all’ideale però non assume per Freud il significato di un riferimento a un ordine del “dover essere”definito come valido per tutti allo stesso modo, e non si risolve quindi in un imperativo del tipo “tu devi essere normale come tutti”, ma si coniuga con il richiamo a una responsabilità soggettiva dell’ordine di un “poter essere”, cioè a sviluppare quello che la storia di un soggetto gli ha fornito come patrimonio personale che ognuno è tenuto a far fruttare nell’interesse di tutti ma secondo una misura e una modalità che “propria”. In questo senso la parabola evangelica dei talenti contiene un nucleo di saggezza particolarmente illuminante per tutti, al di là della sua valenza religiosa per i credenti: ognuno è tenuto a prendere atto e far fruttare i talenti di cui è stato dotato, senza l’obbligo di essere uguale a chi ne ha avuti di più ma senza risparmiarsi per mettersi sullo stesso piano di chi ne ha avuti di meno. In questa seconda prospettiva cambia il luogo del vincolo etico, che da esterno diventa interno, ma non diminuisce per questo la forza del vincolo che se mai, proprio perché non è affidato all’approvazione o punizione degli altri, trova nella coscienza del soggetto stesso un testimone sempre vigile che non può essere aggirato o ingannato;
c) la normalità si misura in relazione alla psicosi: ciò significa scardinare il riferimento usuale che lega la normalità a un “ideale punto di arrivo”, costituito dalla maturità, sostituendolo con un “reale punto di riferimento” costituito dalla psicosi. In Freud la psicosi è vista sia come una possibile strutturazione dell’assetto psichico di un soggetto adulto ma anche come modalità di funzionamento dell’apparato psichico in varia misura presente anche nella situazioni della cosiddetta normalità. A questo proposito la riflessione psicoanalitica odierna ci ha fornito la possibilità di acquisire una nuova concezione della psicosi intesa come “fondamento psicotico”, che sta alla base delle vicissitudini psichiche di ogni individuo e che, anche quando il soggetto riesce a superarlo per approdare a scelte psichiche diverse da quella della psicosi conclamata, continua a costituire un fondo a cui è sempre possibile per tutti, in rapporto ai casi della vita, ritornare e che rimane come elemento che segna un’identità di struttura per tutti. Sulla base di queste premesse che riformulano lo statuto della normalità, Freud può affermare che
“gli elementi costitutivi della psiche sono sempre gli stessi. Ciò che muta nella combinazione sono le proporzioni reciproche e, aggiungiamo, il modo in cui esse si distribuiscono nelle diverse provincie della vita psichica e in relazione ai diversi soggetti. Noi dichiariamo poi, in base a certi criteri, che alcuni individui sono normali o patologici. Ma questi criteri non sono assolutamente né univoci, né sicuri, né stabili. Per valutare i processi psichici l’alternativa posta dalle categorie “normale-patologico” è altrettanto inadeguata quanto quella “buono-cattivo” che un tempo dominava incontrastata”.
d) la valutazione della normalità per la psicoanalisi può essere effettuata solo con un criterio di approssimazione e di provvisorietà. Ciò significa che non si può pensare di misurarla con la “precisione” propria dello strumento matematico quando ricorre al numero per la misurazione statistica dei fenomeni fisici. Lo strumento statistico, mutuato in psicologia per l’uso dei Test, comporta il rischio di far credere che si possano misurare gli stati mentali allo stesso modo dei fenomeni fisici e induce a un uso improprio dei risultati che vengono spesso usati per formulare diagnosi che finiscono per imprigionare e fissare la complessità mutevole di una soggettività.

Lo spostamento operato dal pensiero freudiano e dalle riflessioni teoriche recenti della psicoanalisi è quindi caratterizzato dal fatto di sostituire a una “distinzione qualitativa”, che separa le persone normali dai malati di mente facendone due soggetti sostanzialmente diversi, una “distinzione quantitativa”, che, pur nel riconoscimento della diversità, mantiene tutte le espressioni della soggettività umana all’interno dello stessa ambito qualitativo. In altre parole e per utilizzare delle figure familiari a Freud, tra il genio di Leonardo e la psicosi del Presidente Schreber ( un caso clinico esaminato da Freud), c’è “identità di struttura” pur nella diversificazione quantitativa e dinamica delle “forme” psichiche.
All’immagine riduzionista di un soggetto costretto entro i soli parametri della normalità e della patologia, il pensiero della psicoanalisi permette di dare forma alla concezione della soggettività umana come strutturalmente contrassegnata, in ogni sua manifestazione individuale, dalla complessità propria di un “soggetto composito e costantemente mutante” che come tale non può di per sé di essere rinchiuso in qualsiasi griglia di una presunta normalità o patologia.
Accogliere questa nuova proposta teorica non significa soltanto rinunciare a inquadrare gli altri nelle categorie di normalità o patologia ma significa innanzi tutto non avere bisogno di pensare a se stessi secondo quelle categorie se non con la chiarezza di usarle per una ragione di “utilità pratica” e non di “valore teorico”, perché, come chiarisce lo steso Freud,
“nonostante l’indeterminatezza concettuale che la caratterizza e la mancanza di un fondamento sicuro per accertarla, alla distinzione tra ciò che è normale e ciò che è morboso non possiamo rinunciare per motivi pratici”.
Questo significa che quando pensiamo a noi stessi come normali e usiamo per altri le categorie di nevrosi o psicosi, non lo facciamo perché siamo convinti di enunciare una verità teorica, cioè una verità di natura scientifica, ma semplicemente stiamo nominando qualcosa per distinguerlo ma facendo uso di “etichette” di “comodità pratica” che non ci autorizzano a credere che si stia realmente trattando di soggetti qualitativamente diversi da noi, ma di qualcuno che ci sta testimoniando, con sofferenza, una possibilità di essere nel mondo che può diventare anche la nostra se ad esempio si modificassero delle circostanze significative della nostra esistenza come ad esempio un lutto, un trauma o uno stress.
Per tutti quelli che decidono di accreditare il valore teoretico alla differenza tra normalità e patologia o tra normalità e diversità in genere, le alternative non possono che essere due: o l’emarginazione del malato psichico (si pensi alla istituzione manicomiale), ma anche di tutti i soggetti che, a vario titolo, incarnano una qualche forma di patologia, o la compassione, la tolleranza e la cura benevola sulla base di un imperativo non di natura “noetica” che ne sancisca l’identità di struttura, ma di natura “etica o morale” che impone di trattare chi normale non è, “come se” fosse uguale, sul presupposto o di un principio religioso (“siamo tutti figli dello stesso Dio”) o di un principio laico-naturalistico (“siamo tutti figli della stessa Natura”). In questo modo, la “teoria” sostiene la “disuguaglianza sostanziale” e l’”etica” ne sancisce l’”uguaglianza formale”. Sappiamo però – e la storia passata e presente è sempre pronta a confermarcelo – che quando si creerà un conflitto di interessi qualsiasi, economico, ideologico, sociale, la forza del principio etico è destinata a cedere il passo a forme di sopraffazione o di emarginazione.

4.Distinzione e riconoscimento

La logica binaria sembra a prima vista essere fonte di chiarificazione in quanto introduce nell’indistinzione della realtà elementi di individuazione: i sani non sono i malati, i normali non sono i folli, gli uomini non sono gli animali e così via. Ma. Come quando una mano scrive e l’altra cancella, succede che, una volta introdotta, questa distinzione produce come effetto la cancellazione delle differenze individuali in quanto si vanno a configurare delle classi di identità “generiche” dove il riconoscimento delle individualità è di fatto bandito. Questo è, in effetti, l’esito di una procedura diagnostica che permette sì di distinguere una classe di soggetti ma poi, al suo interno, ne azzera le specificità individuali.
Se questa logica binaria ha avuto e continua ad avere una presenza nella realtà c’è da chiedersi a quali bisogni essa risponda. Ciò che normalmente viene detto è che questo modo di procedere è a favore dell’interesse del paziente. In realtà questo tipo di ricorso alla diagnosi sembra rispondere più alle esigenze del terapeuta, al suo modo di intendere la cura e al bisogno di fronteggiare meglio l’angoscia di fronte all’incertezza e di diminuire la fatica del riconoscimento delle specificità individuali richieste da un processo di cura.
Non è dello stesso ordine il ricorso alla diagnosi, relativamente anche a forme gravi di disagio psichico come la malattia di Alzheimer e la demenza senile, da parte della psicoanalisi odierna. L’atto del diagnosticare permette in questo caso di riconoscere delle specificità nel far fronte all’angoscia da parte di soggetti anziani con una modalità particolare di articolare il rapporto con lo spazio, il tempo e la memoria ma senza per questo operare delle separazioni in quanto ciò che si rende visibile in queste forme dell’esperienza umana rimanda a qualcosa che riguarda tutti, in quanto appartiene alla soggettività in quanto tale. Contrariamente quindi a quello che avviene nelle normali procedure diagnostiche, in questo caso non è una separazione che viene promossa ma una continuità che viene segnalata anche là dove sembra essere presente il marchio di una differenza irriducibile, come nel caso della demenza: “C’è una continuità: apparteniamo alla stessa famiglia. Si tratta di arrivare a capire quanto c’è di demenza nella nostra vita ragionevole, quanto c’è di demenza nella ragionevolezza, e quanto c’è di “lume intellettuale” (S.Caterina) nel cosiddetto demente” .
Ciò che distingue le due modalità di operare con la diagnosi è il fatto che in un caso, con il privilegiamento dei sintomi, si produce un effetto che sembra garantire una conoscenza chiara perché basata sulle evidenze dei comportamenti che, come tali, sono misurabili e classificabili ma non forniscono in realtà che delle semplici analogie di superficie, mentre nell’altro caso, con il privilegiamento di elementi strutturali, si ha la possibilità di segnalare la posizione dei soggetti rispetto alle scelte relative alle questioni fondamentali dell’esistenza che riguardano tutti aldilà delle differenze comportamentali di superficie. E ancora, nel primo caso uno degli effetti secondari è il continuo mutare dei criteri di definizione diagnostica ( si veda in proposito l’evoluzione del DSM in psichiatria ) alla ricerca di elementi sempre più in grado di catturare e di fissare l’identità di un soggetto,col risultato di far coincidere sempre più quello che uno è con quello che si dice e che si pensa che sia sulla base delle cosiddette “evidenze comportamentali”, con il suggerimento al terapeuta di non perdere mai di vista la diagnosi della persona che ha in cura. Nel secondo caso invece, l’interesse è di altra natura e richiede di dimenticare e relegare sullo sfondo la diagnosi nella convinzione che una relazione di cura in genere si misura proprio sulla capacità dell’Operatore di essere libero e flessibile, cioè non vincolato a quanto può definire approssimativamente e provvisoriamente un soggetto rispetto al proprio disagio.

5. Osservazioni sul concetto di cura

Il modo di pensare la normalità ha delle ricadute sul modo di intendere e praticare un intervento di assistenza e di cura. Se il concetto di normalità viene caricato di una valenza “teorica qualitativa”, la cura non potrà che essere presa in una logica di “guarigione”, di eliminazione cioè di quanto di “patologico-anormale” c’è nel paziente-utente per riportarlo – almeno idealmente nel desiderio e nelle intenzioni del curante – a uno stato di “normalità” pensato come la condizione necessaria per un vissuto di benessere soggettivo. Se questo modello di cura-guarigione può avere un senso, anche se problematico, nel campo della malattia fisica, mostra tutta la sua pericolosità quando viene trasposto nel campo della cura del disagio psichico in quanto la cura-guarigione si colora dei tratti di un processo di “normalizzazione” che, una volta che viene accettato, non è più regolabile entro limiti definiti e può arrivare a riproporre nella sostanza la teorizzazione di trattamenti “forti” in presenza di forme ritenute gravi di disagio mentale. Che oggi la forza di un trattamento possa passare non più attraverso una camicia ( di forza) in un contesto manicomiale ma si realizzi con il ricorso a psicofarmaci sempre più potenti e mirati o nella forma di emarginazioni socialmente mascherate, la sostanza non cambia.
Il ripensamento del concetto di normalità può aprire parallelamente a un ripensamento anche del concetto di cura e al senso da attribuire al ruolo dei cosiddetti Operatori della cura. All’obiettivo della guarigione può essere utilmente sostituito quello del “prendersi cura” che permette di non “separare” il soggetto curante dal proprio paziente-utente in posizione di “(s)oggetto curato” perché il prendersi cura viene inteso in una prospettiva che riguarda sempre ogni soggetto in rapporto al proprio stare nel mondo. Da questa premessa nascono alcune conseguenze.
Innanzitutto l’Operatore che opta per questa prospettiva si dispone a mettere in gioco, come momento preliminare e logicamente imprescindibile, una “presa in cura “ di se stesso come condizione eticamente vincolante per potersi prendere cura di un altro. Le forma di questo prendersi cura di sé dell’Operatore non possono né essere imposte né burocraticamente fissate in forme uguali per tutti. Va da sé però che un “processo di formazione professionale, anche e soprattutto da quando è stato reso giustamente obbligatorio e affidato a una agenzia riconosciuta come l’istituzione universitaria, dovrebbe prevedere non solo momenti di “informazione” culturale ma anche momenti di “formazione alla professione” nei quali la questione del prendersi cura di sé dell’Operatore dovrebbe essere previsto e reso possibile come parte integrante del curricolo universitario.
Il rispetto della condizione preliminare che richiede all’Operatore di prendersi cura di sé, trova la ragione nel fatto che, quando questo non avviene, l’Operatore non fa che utilizzare la sua pratica professionale, che lo vede impegnato a prendersi cura degli altri, come un “surrogato” della mancata presa cura di sé. Questo comporta che il disagio “non elaborato” dell’Operatore verrà, inconsapevolmente ma non senza responsabilità, fatto passare nella relazione con l’utente attraverso meccanismi, ormai noti, di identificazione proiettiva che lo porteranno a non riconoscere nell’altro se non le proprie forme di disagio, in un processo di rispecchiamento che, se non risulterà sterile, potrebbe anche rivelarsi pericoloso per il destinatario della cura.
In secondo luogo, la sostanza di un intervento di cura, se si esclude l’obiettivo di una guarigione, non si limita o all’applicazione di tecniche standard di natura terapeutica o a un interessamento empatico di benevolenza compassionevole, che non è di alcuna vera utilità a chi vive in uno stato di disagio psichico, ma si muove nella direzione di aprire uno spazio, attraverso la relazione con il curante, in cui il paziente possa ritrovare, se lo deciderà ( perché non bisogna mai dimenticare che una cura vera si pone su un piano di “offerta” e non di imposizione ), la capacità-possibilità di prendersi cura di sé visto che, per le vicissitudini della vita, è stata danneggiata o, nei casi più gravi, l’ha persa o addirittura non è stato messo in condizione di acquistarla veramente.

6. Lo spazio e la funzione della Supervisione

Il “prendersi cura di sé” che, come abbiamo visto, riguarda sempre sia l’Operatore che l’utente di una cura, comporta necessariamente la creazione di un altro spazio, questa volta dedicato all’Operatore e che nominiamo come spazio di Supervisione, nel quale gli Operatori devono poter portare gli “scarti” che inevitabilmente segnano le relazioni di cura, nella forma di agìti non sempre adeguati alle esigenze quotidiane delle pratiche di assistenza e di cura, per poterli elaborare in modo da non rimanerne “intossicati” al punto da indebolire la propria capacità di intervento professionale o addirittura da dover abbandonare il campo a causa di un’usura da “burnout” che, quando supera certi limiti, può essere in grado di metterli fuori gioco.
Il materiale degli “scarti” può essere di varia natura e può derivare da sensi di colpa per non essere stati in grado di corrispondere a un profilo professionale ideale, oppure può riguardare vissuti di impotenza o vere e proprie ferite narcisistiche profonde scaturite da scambi emotivamente intensi frustranti con i pazienti. Il primo impulso è sempre quello di “gettare via” gli scarti come si fa normalmente con questo tipo di materiale. Questo è quello che avviene nelle esperienze di Supervisione dove domina una concezione della normalità come “dovere essere” e non come “poter essere”. All’Operatore che riporta un errore si dice che deve correggersi; a quello che dice di essere deluso si dice che deve trovare le ragioni per farsi coraggio e a chi dice di essersi sentito ferito si richiama il fatto che è il prezzo da mettere in conto per la scelta professionale che ha fatto, e così via. La Supervisione si esaurisce così in un richiamo a ripristinare il rapporto con l’ideale, rafforzato da un incoraggiamento, con l’obiettivo di promuovere un rafforzamento del cosiddetto senso del dovere.
In realtà, ogni materiale di scarto proveniente da una interazione di assistenza o di cura contiene elementi importanti e preziosi per capire quanto è realmente passato in quella relazione non solo a carico dell’Operatore ma anche e in uguale misura a carico dell’utente. Ora, se un intervento di cura ha come centro primario di interesse l’economia di un paziente e non quella di un Operatore, è a questo obiettivo che si deve pensare quando si decide di rielaborare quanto è rimasto in sospeso di una relazione di cura. Prendiamo a titolo di esemplificazione un episodio della mia pratica di Supervisore con degli Operatori di una Comunità alloggio per minori. Un Educatore professionale porta in Supervisione un suo forte turbamento e un’angoscia legata a un acuto senso di colpa per avere dato uno schiaffo a un ragazzo di 12 anni affidato alle sue cure. Spostando l’attenzione verso il minore e andando a vedere cosa c’era nella sua storia familiare, scopriamo una cosa che ci permette di dare allo scambio intervenuto tra i due un significato inaspettato. Il ragazzo veniva da un’esperienza di maltrattamento e l’unico modo che conosceva per ricevere attenzione e affetto dagli adulti che apprezzava di più consisteva nel provocarli, con parole e gesti di aggressione fisica, fino al punto da indurre negli adulti delle reazioni che potevano configurarsi anche come gesti di percosse, come lo schiaffo nel caso riportato, dopo il quale manifestava una sensazione di benessere. Recuperato questo elemento dalla storia del ragazzo, la cosa più importante non era più allora quella di concentrarsi sul giudizio di condanna da dare alla reazione dell’Educatore ma, proprio a partire dalla rinuncia a mettere al centro la figura dell’Operatore, diventava proficua la scoperta che quella forma di scambio, apparentemente “sbagliata”, conteneva un’indicazione preziosa per la futura regolazione della relazione con quel minore. La possibilità fornita all’Operatore di “poter pensare” in forma nuova il comportamento del minore apriva lo spazio per un possibile cambiamento nella relazione tra i due, sulla base di un’offerta di “rappresentazione simbolica” che poteva essere attivata al posto di una provocazione fisica attraverso la quale far passare la ricerca di un affetto da parte del minore nei confronti dell’adulto oggetto di un suo investimento affettivo.
Un esempio analogo, anche se di segno apparentemente opposto, lo ricaviamo dall’esperienza di un altro Educatore, turbato da sensazioni di natura erotica nei confronti di una ragazza adolescente della Comunità. Anche in questo caso, lasciando cadere la spinta a sottoporre il comportamento dell’Operatore a un giudizio moralistico e andando a vedere cosa c’era nella storia della ragazza, si è scoperto che proveniva da un’esperienza familiare di abuso e che utilizzava l’arma della seduzione, in quanto era l’unica che conosceva, per attirare l’attenzione e l’affetto degli adulti che si occupavano di lei.
Quello che si evidenzia da questi semplici spunti di ordinaria esperienza lavorativa nel campo delle professioni di cura, è che gli Operatori vengono utilizzati dai propri utenti come campo di proiezioni transferali e diventa quindi importante che vengano aiutati a riconoscere quanto appartiene esclusivamente a loro e quanto invece è da leggere nell’ottica di una riattivazione che li coinvolge come parte di una rappresentazione di qualcosa che però appartiene alla storia dei loro utenti. La funzione di cura consiste appunto in questo: nel riconoscere, spesso solo dopo che qualcosa si è materializzato, quanto di loro è stato utilizzato dai loro pazienti per far venire alla luce qualcosa che non erano in grado di “mentalizzare” ma che, grazie al lavoro di pensiero dei loro curanti, potranno essere aiutati a far passare su un piano diverso da quello della semplice “coazione a ripetere”nel reale.