Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

L’OPERATORE SOCIALE: ETICA E DEONTOLOGIA DI UNA PROFESSIONE


18 Nov 2019 - articoli

L’OPERATORE SOCIALE: ETICA E DEONTOLOGIA DI UNA PROFESSIONE

Introduzione
Che senso può avere occuparsi di questioni di etica e di deontologia per gli operatori sociali e per gli operatori delle professioni di aiuto e di cura in generale?
Può essere l’occasione per riflettere non solo sulle ragioni di una scelta professionale da parte di un soggetto ma anche, e forse soprattutto, sulla ricaduta che un certo modo di intendere e di realizzare il proprio ruolo professionale può avere sulla vita e sul destino degli utenti con i quali l’operatore viene in contatto.
Può essere utile vedere in che modo sia possibile tradurre le “buone” intenzioni di un operatore in “buone” azioni, cioè in azioni professionalmente corrette in modo che la pratica risulti alla fine gratificante per l’operatore e insieme di utilità e di vantaggio per l’utente.
C’è, in aggiunta, una ragione personale che sta dietro l’interesse per un tema di questo genere: come psicoanalista che ha svolto per quasi tre decenni un insegnamento nei corsi di formazione per assistente sociale ed educatore professionale e che tuttora svolge attività di supervisione per operatori impegnati in varie istituzioni, pubbliche e non, ho avuto modo di constatare un fenomeno all’apparenza paradossale e per certi versi inquietante, e cioè che gli operatori più a rischio di burnout o di forme più o meno gravi di usura professionale sono proprio quelli più motivati e sensibili.
Per questo mi sono posto la domanda: come è possibile dare un contributo per la formazione di operatori in modo che la sensibilità morale possa coniugarsi con una maggiore possibilità di tenuta professionale?
E, legata a questa, mi sono fatto un’altra domanda: non è che c’è qualcosa da rivedere nel modo di relazionarsi di questi operatori nei confronti dei propri valori ideali i quali, in seguito alle frustrazioni inevitabili di una realtà lavorativa, perdono progressivamente di peso quando non finiscono addirittura per gravare sulla loro pratica nella forma di un forte senso di inadeguatezza e di colpa, al punto da renderla insostenibile?
A partire da queste premesse partirò da una delimitazione del campo semantico per trattare poi alcuni nuclei problematici significativi per l’etica professionale proprio con l’intento di fornire degli elementi in grado di fare luce sulle questioni sollevate dalle due domande introduttive.

1. Delimitazione del campo semantico
Partiremo con la chiarificazione di tre concetti: etica, morale, deontologia, non ha la pretesa di fornire una chiarificazione teorica esaustiva di concetti così complessi ma di permetterci un uso dei termini libero dal rischio di fraintendimenti nel prosieguo del nostro discorso.
Il termine etica compare nell’ambito dell’esperienza di pensiero dell’Occidente in maniera esplicita e forte con Aristotele e nasce da due parole dalla scrittura e dal suono molto simili tra di loro: ethos e éthos, una con la epsilon e l’altra con la eta.
La prima rimanda a concetti come: costume, abitudine, uso; mentre la seconda contiene, oltre agli stessi concetti, anche quello di dimora, sede, tana, luogo abituale dove si vive.
Questa doppia valenza del termine è importante da tenere presente perché ci permette di tenere insieme qualcosa che non riguarda solo i costumi e gli usi ma anche lo spazio dell’abitare, che viene ad acquisire un peso in rapporto a ciò che intendiamo per etica. Infatti, a pensarci bene, non è difficile per noi, soprattutto dopo quello che le moderne scienze storico- antropologiche ci hanno permesso di sapere, credere che esista un legame molto forte tra il campo dell’etica intesa come comportamenti e costumi e la variabile spaziale dell’abitare: dimorare nella foresta piuttosto che nelle caverne, o nella savana o tra i ghiacci dell’Antartide piuttosto che nelle pianure coltivate del Nilo, ha delle ricadute significative sul senso di ciò che concretamente viene ritenuto opportuno, lecito, necessario o facoltativo dal punto di vista morale. Come pure l’abitare in una nazione dove è prevalente un credo religioso cattolico piuttosto che protestante o, diversamente, islamico o buddista comporta delle ricadute significative che vanno a segnare il sentimento etico di un popolo rispetto ad un altro.
Detto questo, daremo al concetto di etica il valore di riflessione sui fondamenti oggettivi e razionali che permettono di stabilire i comportamenti morali, cioè la riflessione che si occupa del “che cosa” è bene o male e del “perché” si deve fare il bene ed evitare il male.
In questo senso ci sono due tipologie fondamentali dell’etica in base a ciò che viene deciso come fondamento: esiste un’etica religiosa se il fondamento viene posto in una divinità, di qualunque natura essa sia, ed esiste un’etica naturalistica che pone nella natura il proprio fondamento.
In base poi a degli oggetti particolari, nella riflessione contemporanea si sono specificati dei campi o dei domini particolari dell’etica: la bioetica, la neuroetica, l’etica dell’economia, l’etica ambientale, l’’etica della politica e così via.
Il termine morale-moralità deriva dall’etimo latino che riguarda i “mores”, cioè i costumi,le abitudini e noi lo utilizzeremo per parlare della traduzione, nella pratica dei comportamenti, dei principi etici nel rapporto con la coscienza del soggetto.
Il termine deontologia deriva dalla composizione di due parole greche: déon e lògos. Per déon intenderemo il nostro concetto di dovere, aristotelicamente inteso sia come ciò che è moralmente giusto fare, che ciò che è utile fare. Il termine lògos denota il discorso sul dovere, un discorso improntato alla logica, alla razionalità propria del lògos.
Il termine deontologia è normalmente utilizzato in coppia con l’aggettivo “professionale” ed è così che lo utilizzeremo anche noi quando parleremo di deontologia professionale, nel senso dell’applicazione dell’etica e della morale alla professione, nel nostro caso dell’operatore sociale, per definire i principi e le regole che vanno osservati nell’esercizio della professione al fine di impedire di ledere la dignità o la salute degli utenti.

2. Note sul metodo
Struttureremo il discorso a partire da alcune premesse di carattere metodologico:
a. una prospettiva molteplice
Facciamo nostro il rifiuto di una prospettiva etica unica e assoluta a partire dalla constatazione “di fatto” che non esiste un’etica oggettivamente fondata e universalmente condivisa.
In più sosteniamo, “de iure”, l’esistenza di una molteplicità di prospettive etiche chiamate a stare in un rapporto dinamico e dialettico tra di loro come antidoto per una omogeneità etica che non potrebbe che avere come logica conseguenza l’esclusione della diversità di alcuni comportamenti delle persone e la repressione della diversità delle scelte comportamentali. Il rifiuto di una prospettiva unica e assoluta non comporta di per sé l’ accettazione di una prospettiva relativistica intesa come quella nella quale tutti i valori sono uguali ma solo che si intende salvaguardare una molteplicità di punti di vista ma a condizione che di ognuno vengano fornite le ragioni della scelta e venga garantita la coerenza interna delle argomentazioni addotte a sostegno.
Questo aspetto di metodo, nell’economia del nostro discorso, si concretizzerà in una esposizione di vari nodi dell’etica secondo una modulazione dialettica impostata su due posizioni di volta in volta illustrate a partire dallo schema logico “se… allora”, che ci permetterà di sottolineare le diversità teoriche per poter arrivare, nelle conclusioni, a coniugare le variazioni in una composizione pratica soggettiva capace di tenere insieme i vari aspetti della realtà.
b. la scelta etica come scelta conflittuale ed aperta
Passando dal piano sociale a quello individuale, opteremo per una prospettiva che vede le scelte etiche e le decisioni morali come frutto di una dinamica di forze in conflitto tra di loro (la psicanalisi le nomina come Eros e Thanatos, cioè come forze costruttive e forze distruttive) che implica un’interazione complessa tra diversi processi mentali nella forma di pensieri, emozioni, motivazioni, memorie, propositi.
Inoltre rifiutiamo la prospettiva che giustifica la presenza del male come qualcosa solo di esterno al soggetto, a favore di una prospettiva che vede il soggetto chiamato continuamente, e non una volta per tutte, a operare scelte moralmente giuste riconoscendo però al contempo l’impossibilità di incarnare completamente, senza cedimenti e contraddizioni, l’adesione a ciò che si ritiene giusto.
La sensibilità etica non si misura per noi sulla capacità di fare sempre il bene quanto sulla possibilità di non rinnegare o di rimuovere la memoria dei propri errori e sul riconoscimento dell’inevitabile contraddizione insita in ognuno tra un’ aspirazione a operare eticamente e una spinta verso la trasgressione delle norme, codificata nell’aforisma sapienziale: “non faccio il bene che voglio e faccio il male che non voglio” (presente tra gli altri anche in San Paolo e in Sant’Agostino oltre che in molti pensatori laici).
Passeremo quindi in rassegna alcuni nodi problematici.

3. Etica e ideali
Il riferimento ai valori ideali è intrinseco al discorso etico ma il legame tra questi due elementi, etica e ideali, può essere declinato in due forme diverse con delle ricadute non indifferenti sul soggetto delle scelte.
3.1 L’ideale come “dover essere”
Un modo di rapportarsi agli ideali è quello di considerarli come valori che è possibile tradurre completamente nella realtà e, parallelamente, di individuare dei soggetti che hanno incarnato questa possibilità e che vengono presi come modelli da imitare.
Questa scelta implica di conseguenza che l’ideale (qualsiasi esso sia) promuove e sostiene nel soggetto che lo abbraccia una valenza di “dover essere”, ugualmente vincolante per tutti.
Se poi nella realtà il soggetto non riesce realizzare pienamente l’ideale e,coscienziosamente, registra uno scarto tra il proprio reale e il proprio ideale, ecco che allora non c’è altra via d’uscita se non quella che prevede una serie obbligata di tappe: l’ammissione e confessione a sé e agli altri del proprio scarto (difetto, errore, colpa); senso di inadeguatezza o di colpa; proposito di evitare lo scarto per il futuro.
Nell’esperienza secolare dell’Occidente cristiano queste vicissitudini hanno contrassegnato l’esperienza della confessione: senso di colpa e riconoscimento del peccato; confessione e proposito di evitarlo in futuro; riparazione simbolica (penitenza) seguita dall’ assoluzione.
Quali sono le ricadute problematiche sull’economia psichica dei soggetti di una simile prospettiva etica?
a. Più cresce la sensibilità morale (intesa come desiderio di realizzare i valori ideali) più aumenta la severità della coscienza (la quale registra come colpa non solo l’azione ma anche il solo pensiero di trasgredire a un dovere, ad esempio anche il solo pensiero di tradire la propria moglie) e di conseguenza aumenta il senso di inadeguatezza e di colpa per le proprie imperfezioni.
b. Per far fronte al crescente senso di pressione-oppressione che una simile prospettiva etica induce, il soggetto, per non soccombere al peso della colpa, sarà tentato di difendersi alleviando il carico della propria coscienza mettendolo sulle coscienze altrui: il soggetto si sposta gradualmente dalla posizione di soggetto morale (cioè che si fa carico del peso della propria coscienza) verso la posizione di soggetto moralista (cioè di soggetto che soddisfa le proprie esigenze di moralità diventando un censore intransigente delle debolezze e delle mancanze di chi gli sta intorno).
c. La misura del dover essere è una misura uniforme che non può tenere conto della specificità della storia dei singoli individui e gli scarti, che sono sempre scarti personali, non possono essere trattati se non rigettandoli in quanto non sono altrimenti utilizzabili.
Non è difficile capire che se gli operatori si dispongono secondo una prospettiva di questo tipo, non potranno sfuggire a un’esperienza progressivamente sempre più usurante a causa degli inevitabili scarti che la loro pratica registrerà in rapporto alla perfezione ideale, con il rischio di un burnout o, come tentativo di difesa, di un progressivo distacco emotivo dalla propria professione e la relativa attribuzione di responsabilità dei propri insuccessi alle carenze istituzionali o alla mancata collaborazione da parte degli utenti.
3.2 L’ideale come “poter essere”
Esiste un’altra modalità di pensare e di vivere il rapporto con l’ideale ed è quella di ritenerlo non completamente realizzabile nella sua ideale perfezione. Freud ci avverte di non confondere ideali con illusioni, dove per illusione intende proprio la convinzione di poter realizzare completamente un ideale che, proprio per questo, si trasforma in illusione in quanto si attua una prevalenza del desiderio sul dato di realtà. Un ideale è salvaguardabile solo come “fictio”, come finzione intesa nel senso di ipotesi del pensiero e non come qualcosa di completamente traducibile nella realtà, senza che questo aspetto tolga valore all’ideale in questione.
L’ideale come “finzione” mantiene infatti tutta la sua valenza di attrazione, di orientamento e di spinta ma si alimenta di una relazione con il soggetto che non è dell’ordine del “dover essere” ma del “poter essere”, nel senso che il soggetto sente la responsabilità di attuare l’ideale ma a partire dal riconoscimento di una misura che è ritagliata a partire dalla propria storia e dalla natura dei propri talenti ,cioè dalle sue possibilità di tradurre l’ideale nella pratica di una vita, fatto salvo il riconoscimento del valore universale di una norma o di un valore, ad esempio il valore della giustizia. La parabola evangelica dei talenti ( dove viene richiesto un impegno commisurato su scale personali diversificate) acquista in questo senso tutto il suo valore di messaggio sapienziale prima che religioso.
In questo senso viene meno la necessità di avere delle persone che vengono assunte come modelli da imitare e viene a cadere la necessità di doversi identificare con essi (necessità che è invece alimentata da un rapporto con l’ideale nella valenza del dover essere, con i rischi che questo comporta per i fenomeni di psicologia collettiva dove la coscienza individuale subisce un fenomeno di ottundimento e di omologazione deresponsabilizzante, come la storia recente ci ha dolorosamente insegnato).
Possiamo registrare anche qui alcune ricadute non indifferenti sulla soggettività in generale, e su quella degli operatori in particolare, in relazione con la scelta di una posizione di “poter essere” in rapporto all’ideale.
a. L’incremento della sensibilità della coscienza morale non produce un aumento della pressione propria del dover essere – che finisce per attirare verso il basso come una palla al piede – ma ha l’effetto di un’ala che spinge verso l’alto in quanto lo scarto inevitabile registrato nel confronto con l’ideale è messo già nel preventivo e può essere utilizzato come un prezioso indicatore che misura sì la distanza dall’ideale ma come qualcosa che segnala una possibilità di sviluppo e non un difetto di realizzazione.
Questo è possibile perché alla coscienza morale non è affidato in questo caso il compito di valutare, giudicare e condannare (“avrei dovuto fare di più”), ma è chiamata a riconoscere quanto è stato fatto come misura della possibilità attuale (“ho fatto quello che potevo”) e nel contempo a segnalare quanto rimane come possibilità di spostamento in avanti rispetto al punto in cui ci si trova (“c’è la possibilità di fare altro”) a partire dalla rinuncia dell’illusione narcisistica di vedere incarnata la perfezione ideale.
b. Gli scarti legati inevitabilmente a qualsiasi pratica di vita, e quindi anche alle pratiche professionali, non sono materiale da rigettare in quanto sono materiali di valore perché sono “materiali di lavoro”in due sensi: in quanto sono legati al lavoro, nascono cioè da una pratica di lavoro, e, secondo, in quanto sono lavorabili per trarne indicazioni preziose sulla natura degli scambi dai quali sono scaturiti.
c. La lavorabilità degli scarti ci porta a parlare di un aspetto decisivo per le pratiche professionali di assistenza e di cura, che sono le pratiche che si basano sulla messa in gioco della soggettività degli operatori. In queste pratiche professionali la soggettività dell’operatore è uno strumento essenziale e fondamentale del lavoro e, come qualsiasi strumento, necessita di una costante manutenzione, pena l’inevitabile usura dello strumento stesso e il conseguente danno della pratica professionale.
Lo strumento per questa manutenzione è individuabile nella supervisione intesa proprio come strumento di lavoro e non come optional da lasciare alle scelte dell’operatore o all’apertura mentale e alla sensibilità dei dirigenti delle istituzioni e dei servizi di assistenza e di cura.
È da chiarire però che non esiste” la” supervisione ma che ci sono “forme diverse”di supervisione. Quella che proponiamo qui va intesa all’interno della prospettiva che stiamo delineando e si connota come uno spazio in cui un supervisore non viene chiamato a svolgere una funzione di valutazione e di giudizio sulla qualità delle pratiche degli operatori (funzione in linea con la prospettiva dell’ideale come dover essere) ,ma è chiamato a elaborare le istanze che gli operatori portano al fine di vedere come sia possibile liberarli dalle scorie del senso di colpa o di inadeguatezza, per recuperare il nucleo di verità contenuto negli scambi relazionali con l’utente.
Ad esempio, a un educatore di una Comunità per minori angustiato dal senso di colpa per avere dato uno schiaffo a un ragazzo che lo stava prendendo a calci e pugni senza un motivo reale, non serviva dirgli che la sua reazione non era stata professionale ma è stato più utile aiutarlo a capire che quel ragazzo, che veniva da un’esperienza famigliare di maltrattamento, lo stava coinvolgendo – riuscendo nel suo intento inconsapevole – nell’unica forma di relazione con l’adulto che lui conosceva, quella cioè di essere maltrattato, e la cosa utile da fare per l’operatore non era quindi crogiolarsi nel proprio senso di colpa ma consisteva nel ripensare la ragione e la natura di quello scambio in modo da attrezzarsi a gestirlo diversamente nella prossima occasione.

4. Etica e motivazioni
Anche in questo caso procederemmo ricorrendo a una declinazione a due voci per ragioni di economia espositiva.
4.1 . Etica delle buone intenzioni, o del “perché”.
Un modo per sottoporre a verifica le motivazioni che spingono un soggetto a fare una scelta professionale nel campo delle pratiche assistenziali e di cura è quello di mettere l’accento sulla bontà delle sue intenzioni, cioè sul perché uno decide di andare in quella direzione piuttosto che in un’altra. Il campo motivazionale delle buone intenzioni – che si compendia nell’espressione generica di “volere fare del bene” – si traduce in due altri elementi complementari: il primo è un desiderio ( (“desidero prendermi cura degli altri”) e il secondo è un sentimento di compassione verso le sofferenze altrui.
Coloro che si occupano della valutazione motivazionale dei candidati alla professione si muovono generalmente nella direzione di verificare la presenza di questi elementi: una buona intenzione, il desiderio di prendersi cura degli altri e una sensibilità compassionevole verso le sofferenze umane.
L’elemento problematico consiste però nel fatto che questo pacchetto motivazionale è da considerare necessario ma non sufficiente a garantire una reale pratica di cura in quanto prende in considerazione solo le ragioni del soggetto che compie la scelta e non la reale capacità dello stesso a svolgere la funzione di cura misurata sulle esigenze dell’oggetto della cura stessa ( che in questi casi è un “soggetto in sofferenza”).
Oggi siamo in grado di saperne qualcosa di più sull’economia psichica di un soggetto anche grazie all’apporto della psicoanalisi. Siamo così in grado di sapere che l’intenzione di prendersi cura degli altri ha sempre a che fare anche con il bisogno di prendersi cura di sé, nasce cioè dall’aver sperimentato in proprio, e di continuare a sperimentare, un rapporto con la sofferenza e il disagio che caratterizza, in intensità diverse, qualsiasi esperienza esistenziale umana.
La cosa sorprendente è che, per curare la propria sofferenza, abbiamo a disposizione, tra le altre forme, anche quella di dedicarci alla cura delle sofferenze altrui. Ma affinché queste pratiche abbiano un effetto reale per sé e per gli altri non è sufficiente la buona intenzione e il desiderio sincero di aiutare e curare gli altri, ma è necessario preventivamente riconoscere l’esistenza di un proprio disagio assumendosi in proprio il carico della sua cura.
4.2. Etica delle buone azioni, o del “per chi”.
Affinché l’intenzione di curare possa diventare vera e perciò valida, è necessario che sia seguita da una serie di operazioni adeguate al raggiungimento dello scopo dichiarato nelle intenzioni. L’attenzione si sposta quindi dal piano delle buone intenzioni a quello delle buone azioni, intese non come azioni di bontà ma come azioni capaci di garantire – almeno nell’offerta – un effetto di cura.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario:
a. che l’operatore intraprenda un lavoro di formazione professionale per acquisire una competenza professionale;
b. che l’operatore non confonda il proprio disagio identificandolo, parzialmente o totalmente, con quello dell’utente: ciò è reso possibile dalla consapevolezza del proprio disagio e dalla decisione di prendersene cura preventivamente nelle forme che si riterranno più opportune;
c. che all’operatore venga garantito, durante lo svolgimento del proprio lavoro, uno spazio di supervisione nel quale elaborare le forme del disagio che derivano dagli scambi con gli utenti.
Mentre le prime due condizioni sono a carico dell’operatore, la terza è a carico delle Istituzioni e dei Servizi che lo hanno incaricato di occuparsi del disagio degli utenti.
Questo dovere, che spetta alle istituzioni, non esonera gli operatori dall’impegno di richiedere in tutti i modi l’attivazione di uno strumento che, di diritto, va loro garantito allo stesso titolo con il quale si è tenuti a garantire a un chirurgo la sterilità di una sala operatoria.

5. Etica e relazione
Il codice deontologico dell’assistente sociale contiene dei riferimenti precisi alla relazione con l’utente:
“ l’assistente sociale riconosce la centralità della persona in ogni intervento. Considera e accoglie ogni persona portatrice di una domanda, di un bisogno, di un problema come unica e distinta”( 2°titolo,7);
“l’assistente sociale svolge la propria azione professionale senza discriminazione di età di sesso di stato civile di etnia di nazionalità di religione di condizione sociale di ideologia politica di minorazione psichica o fisica, o di qualsiasi altra differenza che caratterizzi le persone” (2°,8);
“nell’esercizio delle proprie funzioni l’assistente sociale, consapevole delle proprie convinzioni e appartenenze, non esprime giudizi di valore sulle persone in base al loro comportamenti” (2°, 9).
Questi principi possono essere utilizzati per sostenere forme diverse di relazione con gli utenti.
5.1. La relazione duale interpersonale.
La relazione duale è una relazione nella quale sono in campo due individui, un operatore e un utente, con le loro personalità uniche e irripetibili. Questo dato oggettivo non basta però per definire una relazione come duale perché è necessaria anche la condizione che il fondamento o l’essenza della relazione venga posto, paradossalmente, nella “personalizzazione” della stessa, cioè venga collocato proprio sulla “specificità della persona dell’operatore” (ci limitiamo alla figura dell’operatore perché è un elemento critico in gioco).
Una simile relazione non potrà che essere una relazione di fronteggiamento tra due ego (“siamo qui noi due, è una questione tra me e lei”), e di volta in volta e a secondo delle situazioni, di braccio di forza, di seduzione, di compromesso, di minaccia, di riconoscenza e via dicendo.
Sarà cioè una relazione sottoposta a tutta la varietà non solo degli umori ma dalle convinzioni, dei pregiudizi, delle preferenze, delle simpatie, dell’urgenza delle situazioni è così via.
Questo comporta che un utente incontrando un operatore piuttosto che un altro in queste relazioni duali personalizzate (sarebbe forse meglio chiamarle personalistiche) andrà incontro a due risposte diverse con la conseguenza che è esposto al rischio di una relazione non completamente garantita.
Quello che fa difetto in questa prospettiva è che si spinge l’operatore verso una “personalizzazione” del ruolo piuttosto che, come vedremo , aiutarlo a andare nella direzione contraria, quella cioè di una “oggettivazione” del proprio ruolo professionale, lasciando fuori campo, senza per questo rinnegare, le proprie preferenze, i gusti, gli umori, i giudizi di valore sul mondo e sulle persone.
A questo proposito sarebbe stato utile che nel punto del codice deontologico sopra riportato, là dove si richiede di non discriminare, fosse stato inserito nell’elenco anche la voce “senza discriminazione di convinzioni etiche opinabili” (per esempio circa il valore “sacro” o meno della vita di un feto in rapporto a una richiesta di interruzione di gravidanza), in quanto la decisione per l’accettazione o il rifiuto di una domanda di aiuto è da collocare al sicuro altrove.
5.2. La relazione triangolare neutrale.
Accanto alla relazione duale con i suoi inevitabili vincoli c’è la possibilità di pensare una diversa relazione il cui fondamento non è affidato “né a me né a te” (neuter in latino): una relazione “neutra” nel senso che è regolata da un elemento terzo al quale è affidato il compito di salvaguardare la relazione stessa dagli eventuali abusi che potrebbero derivare da uno dei due interlocutori in campo.
Questo terzo polo potremmo definirlo con l’espressione latina di “ordo rerum”, intendendo con questa espressione quello che potremmo chiamare la“natura delle cose”, ed è alla figura dell’operatore che è affidato il compito di attivarlo in quanto l’utente di suo si dispone naturalmente sulla lunghezza d’onda della relazione duale.
Questo terzo polo è allo stesso tempo un elemento di ordinamento e di salvaguardia dell’economia della relazione professionale in quanto comporta:
a. la necessità preliminare di convertire la “richiesta-pretesa” dell’utente nel registro di una “domanda”, vale a dire nella capacità di riconoscere all’operatore lo spazio di valutazione della richiesta, con la possibilità di non dovere obbligatoriamente evaderla nei termini proposti;
b. la considerazione, sia da parte dell’utente che dell’operatore, dei vincoli legislativi e regolamentari che vanno riconosciuti e rispettati;
c. la valutazione delle risorse a disposizione dell’operatore in rapporto alle richieste avanzate dall’utente.
È in questo contesto che si colloca la funzione del codice deontologico della professione che è chiamato a svolgere la funzione di “tutelare gli utenti” rispetto ai danni che possono derivare loro da un cattivo uso del potere da parte degli operatori ma che tutela anche gli operatori dalle eventuali imputazioni indebite che possono essere avanzate dagli utenti nei loro confronti.
Questo terzo elemento regolatore però può essere usato secondo due logiche diverse: la prima è quella di usarlo come “limitazione” per giustificare l’impossibilità dell’operare ( “non posso farlo perché le risorse, la legge, i regolamenti non me lo consentono” ); mentre in una seconda logica può essere utilizzato come limite per disegnare lo spazio del “possibile” di una relazione di assistenza o di cura ( “a partire da quello che non è consentito fare e con i mezzi che abbiamo a disposizione, possiamo cercare di fare tutto quello che è possibile per la soluzione del nostro problema” ).
La neutralità della relazione come è stata sopra delineata non comporta la neutralità della progettazione intesa come costruzione di un progetto misurato sul riconoscimento dell’unicità soggettiva dell’utente e la specificità della sua richiesta. La neutralità comporta il fatto che, a partire dal rifiuto di uno scambio nel quale trovi conferma la distinzione tra un soggetto attivo che si prende cura (l’operatore) e di un (s)oggetto passivo dell’intervento della cura (l’utente), viene promossa una relazione nella quale, fatto salvo il riconoscimento della asimmetria dei ruoli, tutti e due i soggetti in campo si fanno carico di trovare insieme le strategie di soluzione del problema, assumendosi entrambi la propria parte attiva di responsabilità nell’attuazione del progetto di assistenza e di cura.
Questo comporta quindi che l’utente non venga confermato nella sua posizione, per lui naturale, di questuante che si sente solo “portatore di diritti”, ma venga aiutato ad assumere anche la posizione attiva di “soggetto di doveri” nella realizzazione del progetto che insieme viene costruito.
L’offerta di aiuto non è bene che venga percepita e confermata all’utente come “gratuita”, nel senso che non comporta alcun costo da parte sua ( anche nel caso in cui non sia richiesto un costo in denaro da parte sua), perché in questo caso non potrà realmente beneficiarne in quanto non gli è data la possibilità di sentirla anche sua. Diversa è la questione della gratuità dell’offerta da parte dell’operatore, sulla quale torneremo, che non coincide però con il “dare gratis” qualcosa.

6. Etica e criterio di obbligatorietà
Le decisioni comportano una scelta etica che si gioca attorno a quello che un soggetto utilizza come criterio vincolante per stabilire la differenza tra ciò che è lecito e doveroso o meno.
Questo criterio vincolante, regolativo e normativo, questo nòmos, viene usualmente indicato con riferimento al concetto di legge. Anche in questo caso indicheremo due posizioni possibili per valutare il criterio di obbligatorietà etica che può essere attivato nelle decisioni.
6.1 . L’obbligatorietà delle “leggi”.
Per alcuni il criterio di obbligatorietà morale viene fondato sull’osservanza delle leggi vigenti in un dato momento nel contesto sociale. Di fatto, l’umanità ha da sempre fatto esperienza del possibile conflitto tra il piano delle leggi (che si fonda sul criterio di validità e di legittimazione) e quello della “Legge” ( che si fonda sul criterio di valore e di legittimità) e la storia ci ha dato conto della possibilità di decidere in un senso o nell’altro.
La scelta di far coincidere ciò che è giusto fare con quello che è possibile legalmente fare, nasce dalla rinuncia del soggetto alla possibilità di sottoporre le leggi umane al vaglio di un giudizio che riposa in ultima istanza sulla coscienza morale individuale, intesa come criterio con cui giudicare la distinzione tra bene e male o, per usare la espressione di Sofocle, intesa come il luogo dove vengono custodite “le non scritte leggi degli dei”.
La storia ci testimonia la possibilità – che si è tradotta in molti casi in realtà – che le leggi diventino strumento di legittimazione del male il quale passa spesso, per non dire sempre, attraverso la dichiarata intenzione di difendere dei valori. E’ successo così che, paradossalmente, le forme più efferate del male sono passate proprio dalla assolutizzazione di alcuni valori da difendere eliminando chi, di volta in volta, veniva individuato come nemico del valore minacciato: gli ebrei nemici della purezza della razza ariana; gli handicappati portatori di patologie genetiche, gli oppositori politici corruttori della coscienza civile e via dicendo.
La formula è sempre la stessa: “noi abbiamo una legge e, secondo la nostra legge, deve morire” (o sparire o essere rinchiuso o essere espulso e via dicendo).E questa, come sappiamo, è la formula utilizzata per Socrate, per Antigone, per Gesù Cristo, per Gandhi, per Mandela, per gli ebrei della Shoa e per tutte le vittime legalmente condannate a morte o discriminate senza che avessero fatto niente di male agli altri.
Non sembri fuori luogo questo richiamo nel contesto del discorso che stiamo facendo in quanto è una questione che investe tutti gli aspetti della vita e quindi anche quelli legati ad una professione. Se non si attiva un senso di vigilanza costante, gli operatori dell’assistenza e della cura rischiano di essere coinvolti in programma di “igiene” (sanitaria, psichica, sociale) soprattutto per quei casi di varia patologia che, sotto la copertura della legalità, possono sostenere in forma strisciante e inavvertita pratiche di mortificazione se non di abuso verso i soggetti più deboli di una società.
Il rischio è in un certo senso più sottile oggi ove essendo tramontata l’assolutizzazione della vita come valore di una entità collettiva (etnia, popolo, razza) il suo posto è stato preso dall’imperativo di massimizzazione del valore della vita del singolo, nella sua autoaffermazione sociale e soprattutto nell’ottimizzazione della qualità biologica del suo corpo.
Lo scandalo del male – cioè di una mancanza di pratiche eticamente corrette – non consiste nell’essere legato alla mera distruttività o alla morte e neppure a un dualismo astratto tra demoni malvagi e vittime assolute. Il male è un sistema che si alimenta spesso di legalità ed è un intrico di una rete di relazioni le cui maglie sono formate dalla complementarietà perfetta di pochi ideatori di norme inique, di un numero relativamente esiguo di fanatici zelanti e, soprattutto, di un esercito di spettatori acquiescenti o indifferenti che credono di essere a posto in coscienza perché non fanno altro che eseguire gli ordini ricevuti.
6.2 . L’obbligatorietà della “Legge”.
Per coloro che non affidano il giudizio etico alle leggi dell’uomo rimane valido il riferimento alla legge con la maiuscola, vale a dire alla coscienza morale che, come ha affermato Kant, assieme al cielo stellato sopra di noi rimane l’altro elemento fondamentale dell’esistenza dentro di noi.
È verso questa legge che i soggetti sono debitori e non importa se il suo fondamento viene posto in Dio o nella natura. Nel caso in cui un soggetto si decida a un atto di disobbedienza civile – che ha come oggetto una legge degli uomini – è importante notare che, perché questa decisione abbia un valore di verità, non può essere l’espressione del desiderio di trasgredire la legge perché ciò che la muove è la necessità di rimanere fedele alla propria coscienza. L’obiezione di coscienza si configura quindi non tanto come un diritto ma come un dovere, quello appunto di non tradire la propria coscienza anche a costo di subire una pena ( che può anche essere la propria vita) che ci si dispone ad accettare proprio come conferma del rispetto del valore attribuito alla legge.
Questa esperienza si caratterizza così per la capacità di comporre due aspetti apparentemente contrari: da una parte c’è la disobbedienza a una legge che chiede di fare qualcosa che va contro la propria coscienza e, dall’altra, c’è l’accettazione di una legge che commina una pena per la trasgressione compiuta e che viene rispettata anche se ritenuta ingiusta.
A tale proposito la vicenda storica di Socrate, così come ce la testimonia Platone, è paradigmatica. Condannato ingiustamente a morte con l’accusa di empietà per aver corrotto l’anima dei giovani, Socrate viene sollecitato dai suoi amici a fuggire e a salvarsi dalla morte decretata da una sentenza ingiusta. Socrate avverte il richiamo di una simile tentazione ma ha la forza di respingerla e la sua decisione di affrontare la morte è da lui paragonata ad una scampata malattia dell’anima, rappresentata dal “cattivo giudizio” di fuggire per salvare la propria vita. In questo caso infatti sarebbe venuto meno alla fedeltà dovuta alle leggi che devono essere rispettate anche se sono state usate ingiustamente, perché ne sarebbe andato mezzo il valore della Legge in quanto tale.
Come Socrate, anche Antigone non si sottrae alla condanna a morte che le infligge Creonte per aver disobbedito all’ordine di non seppellire il cadavere del fratello Polinice.
Questa doppia valenza quindi, di disobbedienza ma insieme di rispetto per la legge con l’accettazione del costo legato alla pena per la trasgressione, contraddistingue la natura di una vera obiezione di coscienza. Se invece una cosiddetta obiezione di coscienza non solo non comporta un costo ma libera l’obiettore da un peso e gli procura addirittura dei vantaggi, è chiaro che si è snaturato il concetto stesso di obiezione di coscienza.

7. Distinguere senza separare: l’arte della composizione
Distinguere è sempre necessario ma separare quello che si è distinto è sempre dannoso anche se comodo. Ora, se sino ad ora abbiamo utilizzato lo strumento della distinzione tra due polarità riguardanti uno stesso oggetto, è necessario ora procedere a un lavoro di composizione al fine di evitare un pernicioso effetto di separazione mettendo tra loro in contrapposizione vari aspetti della realtà.
Procederemo in ordine inverso e partiremo dall’ultimo nodo quello riguardante il rapporto con le leggi e la Legge. Non si tratta di contrapporre le “non scritte leggi degli dei”, dei valori assoluti della coscienza, alle norme delle leggi vigenti. Si tratta invece di prendere posizione per le prime quando entrano in conflitto con le seconde esercitando l’obiezione di coscienza e testimoniando, con l’accettazione della pena, di credere nel valore normativo delle leggi ma nello stesso tempo segnalando alla politica (intesa come potere di gestione della polis) di assumersi il compito di trascrivere i valori assoluti in norme più positive e umane in una difficile, ma non di per sé impossibile, mediazione tra etica e diritto, tra la giustizia del “già” e quella del “non ancora” ( si pensi all’azione etica degli operatori psichiatrici per la eliminazione dei manicomi).
Venendo all’etica della relazione , non si tratta di contrapporre il riconoscimento della specificità delle due soggettività in rapporto, quella dell’utente e quella dell’operatore, alla neutralità (introdotta dalla attivazione di un terzo polo, di natura simbolica, costituito dalla ordo rerum), ma si tratta di creare le condizioni grazie alle quali la relazione professionale tra due individualità venga salvaguardata dai rischi che possono derivare dall’intrusione di motivazioni e spinte personali estranei all’economia della relazione di cura, che finirebbero per inquinarla o impoverirla nelle sue potenzialità.
Per quanto riguarda l’etica delle motivazioni si tratta anche in questo caso di coniugare l’economia delle motivazioni individuali di un operatore (il perché) con quella dell’utente (il per chi) in modo di non confonderle ma neanche di separarle. L’operazione che permette questa composizione passa attraverso la consapevolezza che non è sufficiente la buona intenzione di aiutare ma che è necessaria anche l’acquisizione di una capacità pratica di farlo e questa comporta, preliminarmente, il “saperci fare con il proprio disagio” prima di occuparsi del disagio degli altri.
In più, nell’esercizio della professione di cura è necessario garantirsi uno spazio di supervisione nel quale gli inevitabili intrecci tra il disagio degli utenti e le ripercussioni che producono nell’operatore possano trovare espressione e lavorazione.
Per ultimo, la composizione tra il dover essere e il poter essere passa attraverso la capacità di legare il dover essere non a un generico modello oggettivo valido per tutti ma al riconoscimento della propria soggettività e all’esplicitazione dei propri talenti individuali messi al servizio di una economia generale condivisa tra tutti gli operatori implicati in un progetto di assistenza e di cura. Il tutto a partire dalla rinuncia dell’illusione di potere (dovere) realizzare un ideale di perfezione professionale senza per questo privarsi della spinta che il riferimento a un ideale può fornire.

8. Per un al di là del principio del dovere
Perché si affronta un codice di deontologia professionale? Per designare l’ambito dei doveri (dèon-dovere) di un operatore in modo da indicare la barriera da non oltrepassare per non danneggiare un utente. Il codice deontologico può quindi essere letto e presentato come punto di arrivo, la condizione necessaria per lo svolgimento di una professione che, nel nostro caso, ha a che fare con interventi di assistenza e di cura.
Questa prospettiva è ragionevole e legittima e ha una sua indubbia validità. Qui vorremmo proporre però un’altra prospettiva nella quale il codice di deontologia professionale non rappresenta il punto di arrivo ma il punto di partenza e la condizione necessaria ma non sufficiente per un operatore che decide di essere interessato a realizzare un’ immagine professionale che prenda corpo in una prospettiva che vada al di là del principio del dovere.
La differenza tra le due prospettive sta nel fatto che, nel primo caso, abbiamo un operatore che “fa tutto quanto richiede il suo dovere” mentre, nel secondo caso, un utente si trova di fronte ad un operatore che, oltre al dovuto, “fa tutto quello che è in suo potere” per rispondere alla domanda di aiuto che gli viene rivolta. Questo comporta l’attivazione di un patrimonio di risorse che, strettamente parlando, vanno oltre il limite stabilito da un contratto di lavoro con il relativo mansionario.
La conseguenza è l’attivazione di uno spazio che, proprio per il fatto di andare al di là del dovuto, si suole indicare con la categoria della gratuità, intesa come offerta di qualcosa di per sé non dovuto. Nelle relazioni professionali di assistenza e di cura è utile sottolineare che ciò che viene scambiato non è una merce (cioè un oggetto che ha un prezzo in denaro) ma è un bene di servizio. Assieme a questo passa però inevitabilmente qualcos’altro che eccede la natura del bene di servizio e che possiamo indicare genericamente come “bene relazionale”.
È utile a questo punto chiarire in che senso intendiamo fare qui riferimento alla gratuità, essendo questa una categoria molto problematica e utilizzata spesso con false coloriture retoriche.
8.1. Donatori come “creditori o debitori”
La caratterizzazione della gratuità presa sul versante del soggetto che attiva il gesto di offerta passa attraverso la distinzione esistente tra due posizioni che rimandano a due figure emblematiche: quella del creditore e quella del debitore.
Nel primo caso l’offerta del dono, di qualsiasi natura possa essere, è sempre, anche se non viene sempre espressamente ammesso a se stessi, finalizzata ad acquisire un credito che, quando non è monetizzato, è difficile da rilevare.
Nelle relazioni di cura, la forma più comune di credito è costituita dal “debito di riconoscenza” che ci si aspetta da parte di chi ha ricevuto il dono, debito che comporta per il destinatario non solo l’obbligo di ricevere il dono ma anche quello di apprezzarlo (ecco dove ricompare il prezzo) e di sdebitarsi in qualche modo con il donatore.
La spia della presenza di questa posizione di “dono a credito” è la delusione che spesso le persone provano e che verbalizzano nell’espressione: “non mi ha neanche ringraziato”, presupposto spesso per la decisione di non reiterare l’offerta verso chi non si è dimostrato capace di riconoscenza e che rischia di trovarsi quindi squalificato come persona: “non si danno le perle ai porci”.
Esiste però anche una forma più sottile che consiste nell’utilizzare il destinatario del dono come semplice mezzo per garantirsi un credito autonomo (forse si potrebbe dire meglio “autistico”), un credito cioè per confermare una buona immagine di sé, dove lo scopo ultimo del dono è in questo caso la possibilità di confermare un’immagine di sè come “persona disinteressata e altruista”.
Come si può vedere, la posizione del donatore-creditore è una posizione che non è realmente disinteressata in quanto mette al centro dell’economia di scambio l’Io del donatore mentre l’altro è collocato nella posizione di debitore obbligato alla riconoscenza o è semplicemente ignorato e utilizzato come mezzo per la gratificazione narcisistica del donatore stesso.
Esiste però anche una seconda posizione per chi si predispone a fare una esperienza di dono: è la figura del debitore. Il primo aspetto di questa posizione è la spersonalizzazione del debito, nel senso che l’operatore non si sente in dovere, e quindi in debito,verso la persona specifica dell’utente che ha davanti e che non conosce ancora, ma non nel senso di svalutarne la specificità o di non essere interessato a riconoscerlo nella sua unicità, ma nel senso che si predispone a dare il massimo di sé a quell’utente come farebbe con qualsiasi altro, a prescindere quindi dalla sua specificità individuale che si impegna però a riconoscere.
Parallelamente alla spersonalizzazione del debito viene attivata, sempre da parte dell’operatore-debitore, una spersonalizzazione del credito , nel senso che la propria offerta non è finalizzata a un credito di riconoscenza per sé ma, se mai l’utente deciderà di riconoscersi a sua volta nella figura del debitore (cosa non garantita, in quanto ci sono utenti che si vivono solo come creditori nei confronti degli operatori), non è verso di sé che l’operatore convoglierà il debito di riconoscenza dell’utente ma verso un elemento terzo come rappresentante della fonte comune del debito.
In questa prospettiva si è tutti debitori, a seconda delle proprie convinzioni, verso la società, Dio, la Natura o il Destino, in quanto il debito fondamentale verso l’Altro non possiamo fare altro che soddisfarlo con uno scambio di doni gli uni verso gli altri senza per questo acquisire dei crediti di merito o di riconoscenza per se stessi.
8.2. Gratuità e costo.
Si è accennato più sopra che la gratuità del gesto dell’operatore non coincide di per sé con il “gratuito”, inteso come “senza nessun costo” per l’utente.
Ogni dono -nel nostro caso ogni servizio erogato- comporta un prezzo inevitabile in chi lo riceve, consistente nel creare in se stesso le condizioni per accoglierlo se vuole usufruirne. La gratuità dell’offerta da parte dell’operatore consiste nel non richiedere al proprio utente il prezzo della riconoscenza per sé ma non nel liberarlo dal compito di farsi carico, in proprio, dei costi che comporta l’accettazione del servizio richiesto. Questa insidia, di svolgere un’azione di supplenza per l’altro, è sempre presente nella relazioni di aiuto e passa spesso attraverso la breccia del sentimento di compassione (che fa dire “poverino”) nei confronti del soggetto che si ha davanti.
Non bisogna però dimenticare che una relazione di aiuto e di cura che si fonda sulla compassione finisce col collocare l’altro – al di là delle proprie buone intenzioni – nella posizione non di soggetto ma di oggetto della cura. L’attivazione di un intervento di assistenza e di cura non è bene che sia l’espressione di una “disponibilità incondizionata” ma è opportuno che vincoli l’utente, nei modi di volta in volta debitamente valutati, a un dovere di corrispondenza attiva che non è quello di essere riconoscente ma è quello di assumere un atteggiamento di responsabilità e di cooperazione per portare a termine il progetto di intervento che lo riguarda.
Senza questa chiarezza di intenti, le doverose pratiche di assistenza e di cura si trasformano in pratiche di “assistenzialismo” infantilizzante che confermano nell’utente la convinzione di essere solo un “soggetto di diritti” senza alcun dovere, neanche quello, indispensabile, di partecipare all’attuazione attiva e responsabile del progetto che lo riguarda. Senza il coinvolgimento e l’attivazione della responsabilità degli utenti da parte degli operatori, non ci potrà essere altro esito che lo spreco delle risorse destinate agli interventi di assistenza e di cura del disagio sociale.

Conclusione
In conclusione, possiamo riprendere le domande di apertura riguardanti l’apparente paradosso dei rischi maggiori di burnout a carico degli operatori più sensibili. Avevamo avanzato l’ipotesi, da verificare, che potesse trattarsi, tra le altre cose, di un certo modo di rapportarsi con gli ideali. Da quanto siamo andati dicendo, è emerso che effettivamente la decisione di porsi nei confronti dei valori ideali nella modalità che abbiamo indicato del “dovere essere”, può predisporre gli operatori a un’esperienza professionale logorante a causa della difficoltà – se non dell’impossibilità – di fare i conti con gli scarti ( cedimenti, difetti, insuccessi,errori) in una forma insostenibile.
D’altra parte, il nodo della questione non è così semplice da cogliere e da sciogliere in quanto sembrerebbe del tutto ovvio pensare che il conto con quanto riguarda l’etica e la deontologia, cioè il “dèon”, il dovere, debba essere affrontato dal versante del “dovere (essere)”. In realtà può non essere così e si può pensare che è augurabile non mettersi in questa prospettiva a causa delle ricadute negative che essa comporta nell’economia psichica degli operatori. Come abbiamo visto, il “dovere” è più opportuno abbordarlo dal versante del “potere (essere)” perché in questo modo è possibile salvaguardare sia l’aspetto del vincolo proprio di ogni dovere – che comporta la decisione di tradurlo nella pratica dell’azione – che misurare la fedeltà al dovere col metro della propria soggettività e non col mero astratto dell’oggettività universale.
Riconoscere la specificità di una “propria misura” non significa, come abbiamo visto, garantirsi l’alibi di un impegno sminuito, di comodo, ( cosa che è possibile per chi va in cerca di pretesti per risparmiarsi ), ma offre al soggetto eticamente sensibile la possibilità di dare il massimo in rapporto alle sue possibilità e in modo non conforme” a quello di tutti gli altri ma “creativo”, cioè con l’impronta del proprio talento specifico e rinunciando al desiderio, illusorio, di essere capace di incarnare completamente un ideale.
Questo permette, di conseguenza, di mettere in conto la realtà degli scarti ma con la predisposizione non di soffrirli come ferite narcisistiche ma a utilizzarli come materiale in grado di orientare la progettazione del lavoro in rapporto alle circostanze.
Questo nuovo posizionamento in rapporto ai propri valori ideali può favorire:
1. una “motivazione” alla scelta della professione più incentrata sul desiderio di andare incontro ai bisogni degli utenti che sul proprio desiderio di incarnare un’immagine positiva ( di bontà, altruismo, generosità, dedizione) di se stessi;
2. una capacità di stare nella relazione con gli utenti in una forma non centrata su di sé ma regolata dalla polarità terza ( neutra ) costituita dall’”ordine delle cose”;
3. una energia morale in grado di sostenere, quando si rendesse necessario, un’obiezione di coscienza verso norme avvertite come lesive dei valori della propria coscienza;
4. una disposizione ad arricchire la propria professione con offerte di gratuità che vanno al di là della semplice dimensione contrattuale..
Questo cambiamento di prospettiva non può naturalmente essere imposto ma può essere fatto passare attraverso una modificazione della propria pratica e, contemporaneamente, attraverso una costante riflessione condivisa sulla natura e le forme della pratica professionale in gioco.