Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

Sapere e verità


3 Mar 2024 - articoli

Sapere e verità

Qualcuno potrebbe dirci che promuovere esperienze culturali, cioè di pensiero, non sia la cosa ideale da fare per chi vuole favorire un cambiamento, perché è sulle emozioni che dovremmo fare leva, per esempio parlando dell’amore per l’ambiente. L’amore: un’emozione, un sentimento, non un pensiero. Se qualcuno la pensa così sbaglia, perché non sono le emozioni che determinano i pensieri ma, al contrario, sono i pensieri che determinano le emozioni. Il che vuol dire che se vogliamo promuovere un modo nuovo di stare in rapporto con l’ambiente, o, se volete, un nuovo modo di amare l’ambiente, è al pensiero che dobbiamo affidarci perché, se riusciamo a ri-pensare il nostro rapporto con l’ambiente, anche i nostri sentimenti e le nostre emozioni cambieranno di conseguenza.
Che sia vero quello che ho appena affermato basta a provarlo un semplice esempio: se voi pensate, e quindi credete, che un immigrato sia una persona pericolosa, un potenziale delinquente e uno che viene a rubarvi il posto di lavoro, la vostra emozione verso di lui non potrà che essere di rifiuto e di ostilità. Se voi lo pensate come un vostro simile, un fratello che è in difficoltà e che ha bisogno del vostro aiuto per sopravvivere, l’emozione che proverete per lui sarà di benevolenza e di accoglienza.
Noi sperimentiamo il pensiero nella forma della parola nel discorso. Quando parliamo, le nostre parole non sono mai neutre ma contengono emozioni e le trasmettono. Se dico: odio gli omosessuali perché sono anormali, le mie parole contengono, trasmettono e suscitano odio in chi le fa sue. Così come se, al contrario, dico: rispetto gli omosessuali anche se hanno un orientamento diverso dal mio, io trasmetto rispetto e suscito rispetto. Anche l’esperienza della conversione, qualsiasi essa sia, non è un’esperienza emotiva ma di pensiero. Non è infatti un caso che nella lingua greca il concetto di conversione venga nominato con la parola metànoia, che vuol dire appunto: cambiamento (metà) di pensiero (nous).
Promuovere esperienze culturali, mettere al lavoro il nostro pensiero, vuol dire modificare di conseguenza il nostro sapere. Se si ascolta quello che dei relatori dicono( dico “ascoltare” e non semplicemente “sentire”: c’è differenza tra udire e ascoltare: l’ascolto richiede la decisione di dare credito a chi sta parlando e di farsi interrogare dalle idee che ci vengono offerte): se si ascolta, il nostro sapere cambierà, sapremo delle cose nuove che prima non conoscevamo. Sì, ma se cambierà il nostro sapere, vuol dire che cambierà anche il nostro credere, perché c’è un rapporto intrinseco tra sapere e fede. Infatti noi diciamo: credo che la terra sia rotonda perché sappiamo che la terra è rotonda. Se noi pensassimo che la terra è piatta diremmo: credo che la terra è piatta. Quindi il sapere è in rapporto con il credere. Questo nesso vale anche per l’esperienza di fede di natura religiosa. La teologia dice infatti che, se è vero che la fede è qualcosa che va aldilà della ragione, cioè di quello che si sa, è anche vero che la fede non va contro la ragione, cioè ha un legame con quello che si dice di sapere.
La cosa interessante da registrare è che, se è vero che esiste un nesso tra conoscenza e fede, allora nessuno è esente dal fare esperienze di fede: anche l’ateo ha un suo credo, e quindi una sua fede, solo che è di natura diversa dalla fede del religioso e si colloca sotto l’etichetta di conoscenza scientifica, ma condivide con questo un elemento in comune: la non dimostrabilità razionale dell’esistenza, e quindi anche della non esistenza, di Dio. Per tutti e due la scelta si accompagna a un rischio e ha la forma della scommessa.
L’altro elemento comune alle due esperienze consiste nel fatto che la fede, per ambedue, è la base della speranza: si spera in quello in cui si crede. Dove sta allora la differenza? Sta nella diversità del “fondamento” sul quale si appoggiano “le cose non apparenti” (secondo l’espressione di Paolo di Tarso). Per il religioso credente , “le cose non apparenti”, cioè i fatti non evidenti, non ancora conosciuti o addirittura non conoscibili ( come per esempio l’esistenza dopo la morte), sono creduti veri sulla sola base della fede, mentre per il non credente la loro verità dipende dalla possibilità, presente o futura non importa, di “essere dimostrati” sulla base di prove razionali condivise.
A proposito di fede: come possiamo leggere il fenomeno della cosiddetta secolarizzazione in atto nell’ Occidente cristiano? Qualcuno la legge come il venir meno della fede mentre, in realtà, è il passaggio in atto da una fede, quella nel messaggio evangelico (non a caso messaggio, pensiero) a un’altra fede, quella nella scienza, che sta dimostrando di avere un messaggio che per molti è diventato più credibile di quello della religione.
L’esperienza del credere mette in gioco un aspetto particolare del sapere: quello del suo rapporto con la verità. Quando dico: credo in qualcosa (qualsiasi cosa: Dio, ma anche la scienza, il cambiamento climatico, il vaccino ,eccetera) equivale a dire: penso che sia vero (che esiste Dio, che la scienza sia valida, che il cambiamento climatico è accertato, che il vaccino funziona, eccetera); penso che sia vero, cioè: metto in relazione il sapere con la verità.
Con la messa in campo della verità però il gioco si fa delicato perché, non esistendo la Verità, con la maiuscola, ma diverse verità, è difficile che gli uomini che le sostengono siano capaci di dialogare tra loro, in modo da arrivare pacificamente a trovare un accordo in vista di una verità comune condivisa, capace di promuovere progetti costruttivi per la creazione di un bene comune. Quello che più facilmente si attiva sono forme più o meno gravi di conflittualità che possono andare dal litigio, lo scontro, la polemica, la guerra: le guerre sono tutte guerre di verità, sia che siano guerre di religione, in nome del vero Dio, che guerre laiche di potere.
Oggi la verità non è in grado di darci il senso delle cose se prima non decidiamo quale è il senso da dare alla verità.
Il rapporto con la verità per qualcuno è la nostra condanna (nostra, intesa come specie umana), mentre per altri è la nostra risorsa, la nostra ricchezza. Quello che è certo è che è la nostra specificità: cioè è qualcosa che caratterizza la nostra specie. Gli animali non hanno il problema della verità: il mio gatto non si pone la domanda se è vero, e quindi giusto, fare una cosa piuttosto che un’altra: sa, senza bisogno di averne coscienza, qual è la verità del suo essere e vive di conseguenza. Non ha la verità dell’essere gatto ma vive la verità dell’essere gatto. Per noi non è così: noi non abbiamo la Verità dell’essere uomini ma dobbiamo cercarla e cercarla costantemente, come individui e come specie. Dobbiamo però cercarla non perché l’abbiamo persa (solo le narrazioni mitologiche parlano di un’età dell’oro nella quale noi avevamo la Verità che poi, per nostra colpa, per un nostro peccato, l’abbiamo persa); non l’abbiamo mai avuta ma allo stesso tempo abbiamo sempre sentita il desiderio di averla, insieme con la certezza che non sarà mai completamente raggiungibile. Noi potremo fare esperienza solo di una verità relativa e non assoluta: relativa al tempo (la storia), ai luoghi (la geografia), alle diverse esperienze di vita (le varie culture). Questa “verità” l’abbiamo sempre avuta, in forme diverse e non meno valevoli della forma che abbiamo noi oggi, “uomini della conoscenza”, come ci ha etichettati Nietzsche.
In più, siamo chiamati a decidere cosa farne del rapporto con la verità, individualmente e socialmente. Individualmente: decidendo di essere coerenti o meno con noi stessi, cioè di comportarci in maniera conforme a quello che diciamo di credere. Se per esempio diciamo di credere nella necessità di tutelare l’ambiente, cosa vuol dire essere coerenti con questo nostro credo? Socialmente, dobbiamo decidere se vogliamo usare il rapporto con la verità come un’arma per fare la guerra a chi non la pensa come noi ( il fanatismo è sempre una tentazione allettante), o se pensiamo che sia eticamente più conveniente coltivare la passione per la verità come spinta per cercare uno scambio con la verità degli altri, a partire dalla convinzione che nessuno possiede la verità intera ma che siamo portatori di scintille di verità, che hanno bisogno degli altri per accendere un fuoco che ci riscaldi piuttosto che per scatenare un incendio che ci bruci riducendo noi e il mondo in cenere.

Sergio Premoli