Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

SERVIZI E OPERATORI PER L’ADOLESCENZA


23 Gen 2020 - articoli

SERVIZI E OPERATORI PER L’ADOLESCENZA

Le politiche del cosiddetto “Welfare State” hanno dato vita a una serie di servizi destinati a operare nel campo della prevenzione e della cura del disagio fisico e psichico dei soggetti in età evolutiva.

Significativamente, fino a pochi anni fa, si è verificato il fenomeno di una stridente contraddizione tra l’enunciazione teorica e l’attuazione concreta di questi servizi, soprattutto per quanto riguarda l’adolescenza: mentre i bambini e i soggetti in latenza vi trovavano posto, gli adolescenti ne rimanevano di fatto esclusi e, nel caso vi trovassero accoglienza, o venivano schiacciati verso il basso (in direzione della neuropsichiatria infantile che ne esasperava solo l’aspetto di soggetti “in divenire”) o venivano premuti verso l’alto (in direzione della psichiatria dell’adulto che ne fissava l’aspetto dell'”essere”) con effetti negativi in ogni caso, legati all’impossibilità di cogliere l’adolescente come “essere-in-divenire”.
Di fronte al dilagare del disagio adolescenziale, specie nelle forme più gravi e vistose della tossicodipendenza e della delinquenza giovanile, si è arrivati alla messa in opera di progetti giovani destinati alla popolazione comprendente i preadolescenti, gli adolescenti e i giovani alle soglie della maturità.
Rispetto a queste esperienze non è possibile, allo stato attuale delle cose, esprimere qualcosa che possa andare al di là di semplici impressioni. Di fatto, l’impressione più forte che si ricava dall’esame di queste iniziative e dalla testimonianza degli operatori che le sostengono è che ci sia un fenomeno che potremmo definire dell’ordine di una “contaminazione” tra le istanze degli adolescenti e le caratteristiche dei servizi chiamati a soddisfarle. Se assumiamo la categoria di “spinta” come quella che emblematicamente condensa alcuni tratti caratteristici della situazione adolescenziale, possiamo schematicamente individuare alcune forme in cui questa spinta sembra segnare i cosiddetti “progetti giovani” sperimentati in questi anni:

1. La spinta al “fare”: uno dei tratti più marcati di questi pro- getti è quello costituito dal richiamo praticamente esclusivo a operazioni che sono dell’ordine del “fare”. Anche il pensare è risucchiato nella direzione di un “pensare a cosa fare”: fare sport, fare feste, fare mostre, fare artigianato, fare viaggi e via dicendo.
Abbiamo visto più sopra come il prevalere dell’agire sul pensare sia una delle spinte più forti che segnano l’esperienza dell’adolescente, puntualizzata da una serie di “agiti” che stanno al posto di un’impossibilità di trovare soluzioni attraverso l’elaborazione di rappresentazioni simboliche dei conflitti.
Anche gli interventi più specificamente a carattere psicologico messi in atto in questi progetti educativi finiscono spesso per essere influenzati da questa spinta, il cui effetto si rende visibile ad esempio nell’attivazione di procedure testistiche o in altre procedure finalizzate a mettere a punto in breve tempo un ritratto della personalità da consegnare all’adolescente in modo che vi si rispecchi, confermandolo tra l’altro nell’idea che è l’adulto a possedere la chiave di un sapere che lo riguarda.

2. La spinta al “tutti-insieme”: l’adolescenza è allo stesso tempo l’età della spinta alla separazione (dai genitori, dagli adulti, dalle convenzioni ecc.) e della spinta al “tutti-insieme” (“all together”) in parte giocata nella realtà dell’esperienza di gruppo e in parte giocata in forma immaginaria attraverso costruzioni fantastico-ideali di comunione universale degli uomini, degli animali e delle cose. Parallelamente, i sociologi ci documentano che mai come oggi stiamo assistendo alla realizzazione a livello generale di questo stesso doppio movimento: quello di una “integrazione” (si parla di integrazione delle economie a livello planetario su tutti i fronti: energetico, economico, ambientale, culturale ecc.) e quello di una “separazione-contrapposizione” (si parla di nord-sud, di est- ovest, di poveri-ricchi, di autoctoni-immigrati ecc.).
Nel loro ambito, i “progetti giovani” sembrano aver recepito questa dinamica e tendono in un certo senso a bonificarla accentuando solo il polo positivo rappresentato dal bisogno di aggregazione e di integrazione. “Aggregare” o “integrare” sono così diventate due parole d’ordine con un vago sapore magico. Per attuarle, molte di queste iniziative prevedono un’offerta “allargata” a tutti indiscriminatamente, e impiantano iniziative che non comportano suddivisioni né per età né per esigenze. Succede quindi che non sono neanche previsti “spazi separati” destinati a gruppi differenziati ad esempio rispetto all’età (elemento cruciale in questo momento evolutivo in cui il ruolo delle barriere e della divisione degli spazi assume un’importanza cruciale e in cui la differenza di pochi anni produce di fatto degli scarti di interesse fortissimi).
Un ulteriore effetto negativo derivante da questa spinta al fare tutti-insieme è quello di non programmare degli spazi per delle esperienze individuali: così ad esempio non sono normalmente previsti né spazi né operatori destinati ad offrire all’adolescente la possibilità di una pratica di parola individualizzata, con la garanzia che questa parola non venga fatta circolare nello scambio che gli operatori hanno tra di loro lavorando in équipe. Sul versante degli operatori infatti, questa spinta al “fare-tutti-insieme” si manifesta anche nella particolarissima accentuazione che assume in questi interventi il “lavoro di équipe”, condizione di lavoro ritenuta necessaria non solo all’interno dei singoli servizi ma anche da estendere a tutti gli operatori che su un dato territorio si occupano degli adolescenti. La complessità dell’esperienza adolescenziale richiede certamente una cooperazione di forze per poterla efficacemente sostenere e questa scelta metodologica di lavoro può risultare necessaria, a patto però che non diventi una forma larvata di delega al gruppo di un compito che non si riesce ad assolvere individualmente.
Ritornando al merito della questione, l’intenzione di aiutare gli adolescenti ad elaborare le loro spinte alla separazione-contrapposizione è di per sé assolutamente pertinente. Si tratta forse di riflettere sul modo con cui garantire il conseguimento di un tale obiettivo che, allo stato attuale delle cose, naufraga spesso in situazioni che sono alla fine più di “con-fusione” (sintomo di una “unificazione forzata nel reale”) più che di vera e propria integrazione. La capacità di integrarsi con gli altri va concepita come una capacità di ordine simbolico da raggiungere alla fine di un percorso evolutivo di formazione e non come condizione da incarnare nel reale, all’inizio di questo percorso.

3. La spinta alla precarietà: l’adolescente, come sappiamo, si vive come un soggetto “a termine” (la soglia di scadenza è simbolicamente segnata dalla maggiore età o dalla maturità) e ha quindi un vissuto molto forte di “precarietà” che lo fa soffrire e che tende variamente a compensare. Curiosamente, quasi tutti i “progetti giovani” sono “progetti a termine”, affidati perlopiù a operatori con una situazione lavorativa “precaria”. Il tutto è a volte teorizzato (sarebbe meglio dire “razionalizzato”) come tratto positivo per dei progetti che si vogliono in consonanza con gli utenti cui sono destinati. A noi sembra però che, più che di “con-sonanza”, si tratti di “eco-sonanza” nel senso di qualcosa che produce un rimando speculare e ripetitivo di un appello, proprio come avviene che all’appello “AMORE” l’eco risponde “MORE… ORE… RE… E…”. Una voce che “va a morire”.

Se ci lasciamo andare per una volta a una considerazione di pertinenza non strettamente psicologica, potremmo dire che il rischio di questi “progetti giovani” è di finire per essere “eco- logici”, nel senso di un riferimento alle vicende mitologiche legate alle figure di Eco e di Narciso. Narra una leggenda greca che la ninfa Eco, delusa nel suo amore per Narciso, si rifugia nei boschi e nelle grotte e finisce per identificarsi con la roccia che riflette tutti i suoni. È una questione cruciale quella che il linguaggio ci propone nella sua mirabile polivalenza semantica: come si fa a passare dal “riflettere” proprio dell’eco, al “riflettere” proprio di un pensiero creativo?
L’adolescente è un soggetto che esercita un forte potere di attrazione nei confronti dell’adulto, ma è anche capace, proprio come Narciso, di deludere chi si interessa a lui, fino al punto di ridurlo allo stato di “pietra che riflette tutti i suoni”. D’altra parte, secondo il famoso adagio latino: “hic Rhodus, hic salta!”: è un rischio che non si può non correre.
Per attenuare questi rischi può essere opportuno attrezzarsi con qualche strumento di riflessione particolarmente indicato per questo tipo di inconveniente (si veda ad esempio: Marsicano, Verso Itaca, Guerini, Milano 1991).

UNA CONCLUSIONE… PER NON FINIRE
Mentre dalla parola parlata si può solo fuggire, alla parola scritta si può solo andare incontro.
Coloro che hanno deciso di venire incontro alla parola scritta di questo testo, arrivati a questo punto, che è il punto di concludere, si troveranno riportati al punto di partenza. Là si era detto che la stesura di questo testo nasceva sotto il segno di una scelta che aveva come oggetto “una prospettiva teorica psicoanalitica” caratterizzata dal suo essere sostanzialmente ancorata al testo freudiano. Di quel testo si era utilizzato un aforisma come apertura del percorso: “Senza la cultura psicoanalitica il bambino rimane un enigma inattingibile”.
Questo scritto si è proposto di collocarsi proprio lì: nel punto in cui fosse possibile far passare qualcosa della cultura psicoanalitica a degli operatori che si proponevano di lavorare all’interno di una relazione in cui l'”enigmaticità” del soggetto potesse divenire in parte decifrabile.
Circa lo spirito che ha sostenuto questa operazione di trasmissione valgono queste osservazioni che Freud mise come premessa al suo Compendio di psicoanalisi del 1938:
non è naturalmente nelle mie intenzioni esigere fede o imporre convincimenti. Gli assetti della psicoanalisi sono basati su una quantità enorme di osservazioni ed esperienze, e solo chi avrà ripetuto su se stesso e su altri queste osservazioni sarà in grado di pervenire a un giudizio personale in merito, (p. 571)
Compare in queste parole l’indicazione dei vari livelli a cui un soggetto può decidere di collocarsi nella sua esperienza con la cultura psicoanalitica. A questo proposito è significativa, per i destinatari di questo testo, la precisazione di Freud contenuta nello stesso contesto da cui abbiamo tratto l’aforisma iniziale:
“L’educatore deve acquisire una cultura psicoanalitica in assenza della quale l’oggetto della sua ricerca, il bambino, rimane un enigma inattingibile. Il modo migliore per acquisire questa formazione è sottoporsi personalmente a un’analisi, viverla sulla propria pelle. In campo analitico l’insegnamento teorico non va abbastanza in profondità e non suscita il necessario convincimento.
Nel caso in cui un operatore si decida per un’esperienza analitica, questa non potrà che essere sostenuta dal proprio desiderio, essendo esclusa la possibilità di surrogazione dello stesso da parte di chicchessia, foss’anche il miliardario americano illuminato ipotizzato da Freud (Il problema dell’analisi condotta dai non medici,1926) quando scrive;
Può darsi che un giorno venga l’idea a qualche miliardario americano di destinare una parte dei suoi quattrini per educare analiticamente i “social workers” del suo paese e per farne un’armata per la lotta contro la nevrosi, figlia dei tempi, (p. 415)
Detto questo, rimane da fare un’ulteriore importante precisazione;
Quello dell’educatore è un lavoro sui generis, che non può essere sostituito dall’influsso psicoanalitico né confuso con esso. La psicoanalisi può essere molto utile all’educazione, ma non è idonea a prenderne il posto.
E sempre importante operare le dovute distinzioni, in modo che ognuno possa ritrovarsi al proprio posto.
Chi è arrivato fino a questo punto probabilmente è un soggetto con il gusto della lettura. Se è così, può essere opportuno venir incontro a questo gusto utilizzando questo testo come il “testimone” di una staffetta ideale in cui al lettore venga indicato dove può proseguire la sua corsa. Per questo, forniremo delle piccole indicazioni per un possibile percorso successivo.
La prima è quella, per chi non l’avesse già fatto, di fare un’esperienza di lettura del testo freudiano. Un testo non può che essere gustato in sé, perché nessun commento può rendergli il suo sapore originario. Uno dei testi che si possono consigliare è l’Introduzione alla psicoanalisi, che è costituito da una serie di lezioni che Freud aveva concepito, in uno stile accessibile anche a un profano, per fornire un quadro sistematico della psicoanalisi.
Per coloro che amassero invece un rapporto più “personalizzato” e meno distaccato, il consiglio è quello di leggere lo scritto intitolato Autobiografia del 1925.
Così, ogni forma di scrittura si interrompe … perché la lettura possa continuare.

Scritto tratto dal testo: Il soggetto in divenire, Edizioni Libreria Cortina, Milano2002, pp. 260-266.