23 Gen 2020 - cultura
Parlare di adolescenza e delinquenza oggi richiede una precisazione iniziale di fondo per distinguere, rimandandole a una riflessione successiva, tutte le esperienze microcriminali degli adolescenti tossicodipendenti. In questi casi infatti il comportamento delinquenziale rimane completamente subordinato all’obiettivo primario di procurarsi la sostanza. Accanto a questa esiste però tutta un’area di comportamenti comunemente definiti come “delinquenziali” che hanno come protagonisti privilegiati gli adolescenti.
Tali comportamenti sono nella maggior parte costituiti da atti rivolti a danneggiare la vita di altre persone, anche se in forme non estreme, e le cose, attraverso la sottrazione tramite il furto o il loro danneggiamento tramite atti vandalici.
Vediamo riapparire qui un riferimento significativo alla dimensione spaziale che caratterizza la natura dell’apparato psichico. Il riferimento alo spazio compare sia a livello simbolico che a livello di realtà. La dimensione simbolica la ricaviamo infatti da una breve riflessione sull’etimo della parola delinquente che deriva dal latino “linquere”, il cui significato è: “collocare” o “lasciare una cosa al proprio posto”, e il prefisso “de” ne connota il senso negativamente come “spostare qualcosa dal suo posto”, “spostarsi”, “cambiare posto”, “sloggiare”. Al di là delle connotazioni semantiche di carattere generale, troviamo qui un riferimento particolare all’adolescente come colui che si trova collocato in quel “non-luogo” che è l’adolescenza, “non-più-luogo dell’infanzia” e “non-ancora-luogo dell’età adulta”.
Il delinquere dell’adolescente quindi, oltre che caricarsi di valenze conflittuali di natura soggettiva, come vedremo, è un comporta- mento che, nel suo insieme, assolve alla funzione di vero e proprio “sintomo sociale”, connotato com’è direttamente in rapporto alle leggi e ai regolamenti di un gruppo sociale. Ciò che è lecito in un contesto può non esserlo in un altro e il campo dei divieti subisce notevoli modificazioni nel tempo e secondo le circostanze. In altre parole, l’area del delinquere si coniuga sempre anche nel rapporto con i confini di “non-luogo” che una data società traccia per gli adolescenti, ai quali viene ingiunto perentoriamente di “stare al loro posto”, con la contraddizione inespressa che questo “posto” è in realtà un “non-luogo” giuridico, produttivo- economico, culturale, politico. La cosa significativa è data dal fatto che, nei momenti di crisi economica di una società, come è quello in corso, questo “non- luogo” dell’adolescenza si popola di un numero sempre più consistente di individui collocati in quello spazio “per un tempo” sempre più prolungato in quanto abbiamo oggi a che fare con un fenomeno di “adolescenza prolungata” che presenta delle valenze non solo temporali ma anche psichiche. IL prolungamento del periodo di formazione scolastica e, nel contempo, l’allontanamento nel tempo della possibilità di entrare nel
mondo del lavoro in forma stabile, ha spostato in avanti la durata dell’adolescenza in rapporto a quello che un tempo caratterizzava l’ingresso nell’età adulta.
Questo ha comportato la messa in mora di una enorme quantità di energie vitali che sono quindi alla ricerca di forme di espressione e di riconoscimento. La tensione che ne risulta spinge la società degli adulti a mettere in campo misure sempre più numerose di controllo.
Abbiamo esempi anche recenti di come una serie di rivendicazioni provenienti dal mondo giovanile possano essere collocate dalla società in un’area “criminalizzata” sulla base di un puro e semplice bisogno di controllo sociale.
Venendo ora più specificamente al versante soggettivo, il contributo della psicoanalisi alla comprensione dei cosiddetti comportamenti delinquenziali è, in un certo senso, piuttosto limitato ma non per questo forse meno significativo. Il nucleo della riflessione psicoanalitica su questo oggetto ruota fondamentalmente attorno al concetto di senso di colpa preso nell’accezione specifica che gli dà Freud quando lo lega alla rimozione e lo distingue dal “rimorso”, inteso come coscienza della colpa derivante dall’aver commesso un atto proibito. L’attenzione di Freud era stata sollecitata da un dato ricorrente nella storia di diversi pazienti e riguardante la messa in atto di una serie di azioni illecite come furti, piccole truffe, atti vandalici, addirittura incendi dolosi. Tali atti erano collocati in età giovanile o nel periodo appena precedente la pubertà. L’approfondimento della questione lo portò a scoprire i nessi di questi comportamenti con il senso di colpa legato al complesso edipico. La conclusione fu inaspettatamente la scoperta di un rovesciamento: non era un misfatto a produrre un senso di colpa, ma era un senso di colpa a
spingere il soggetto a compiere un misfatto dalla cui esecuzione traeva un sollievo.
Così scrive Freud :
II lavoro analitico ha dato il sorprendente risultato che tali azioni venivano compiute soprattutto perché proibite e perché la loro esecuzione portava un sollievo psichico a chi le commetteva. Costui soffriva di un opprimente senso di colpa di origine sconosciuta e, dopo aver commesso un misfatto, il peso veniva mitigato. Perlomeno il senso di colpa era attribuito a qualche cosa. Per quanto possa apparire paradossale, devo asserire che il senso di colpa era preesistente all’atto illecito e non traeva origine da esso, ma che al contrario il misfatto medesimo derivava dal senso di colpa. Sarebbe giusto chiamare queste persone delinquenti per senso di colpa”.
Chiedendosi poi da dove venisse questo oscuro senso di colpa che precedeva l’azione egli afferma: II risultato costante del lavoro analitico ci diceva che questo oscuro senso di colpa proveniva dal complesso edipico ed era una reazione ai due grandi propositi criminosi di uccidere il padre e avere rapporti sessuali con la madre. In confronto a questi due, i crimini commessi per fissare il senso di colpa costituiscono certamente un sollievo per l’individuo tormentato, (ìbidem).
Venendo poi al quesito su cosa potesse aver a che fare questa dinamica con la questione della criminalità in genere, Freud procede a una netta distinzione tra due tipologie psichiche di soggetti criminali o delinquenti, di cui una richiama più la struttura della perversione per il suo essere caratterizzata da una mancanza di barriere, o di inibizioni, e dalla relativa assenza di alcun senso di colpa, mentre l’altra comprende invece il caso sopra descritto, a partire dal prototipo infantile del bambino che diventa “cattivo” per provocare la punizione dei genitori:
La soluzione della questione relativa alla possibilità che questo gene- re di derivazione dell’atto illecito dal senso di colpa svolga un ruolo considerevole nella delinquenza umana, va al di là di quello che è il lavoro psicoanalitico.
Nei bambini è facile osservare che diventano “cattivi” per provo- care la punizione e che dopo essere stati castigati si tranquillizzano e si pacificano. Una successiva indagine analitica conduce spesso sulle tracce del senso di colpa che li aveva appunto indotti a procurarsi il castigo. Fra i delinquenti adulti si devono eccettuare coloro che commettono atti criminosi senza alcun senso di colpa; costoro, o non hanno sviluppato alcuna inibizione morale, oppure, data la lotta che hanno ingaggiato con la società, si considerano giustificati nelle loro azioni. Ma per ciò che riguarda la maggioranza degli altri delinquenti, coloro per i quali il codice penale è più propriamente fatto, questa motivazione del crimine potrebbe essere molto convenientemente presa in considerazione: ne risulterebbero chiariti alcuni punti oscuri della psicologia del delinquente e potrebbe essere fornito un nuovo fondamento psicologico alla pena. (ibidem p. 652)
Noi pensiamo che queste indicazioni possano fornire degli interessanti spunti di riflessione a questa complessa questione almeno sotto tre punti di vista:
1. Chiarificazione del concetto di delinquenza: tale concetto non può essere utilizzato sul versante della valutazione psicologica come un concetto unico, capace di comprendere tutte le tipologie psichi- che lo sottendono. Ben diversa è infatti una delinquenza a carattere perverso (non nel senso morale ma strutturale) da un’altra legata al meccanismo psichico illustrato da Freud. Se è vero che possono comparire in tutti e due i casi elementi simili, come ad esempio la coazione a ripetere e l’assenza di un’angoscia di tipo morale, ben diversa è la diagnosi differenziale nei due casi. Nel primo il senso di colpa è assente sia prima che dopo, mentre nel secondo caso il senso di colpa preesiste alla messa in atto del misfatto e lo fonda. Per questo fatto il ricorso a una categoria clinica, o pretesa tale, come quella di “psicopatia” così facilmente spesa in questi casi, andrebbe quantomeno ripensata.
2. Distinzione tra la delinquenza dell’adulto e quella dell’adolescente: tale distinzione è importante perché serve a differenziare la valutazione di un atto collocato all’interno di un’economia psichica strutturata e una in evoluzione. Se teniamo presente quanto si è detto più sopra circa il riacutizzarsi nell’adolescente del conflitto edipico e dei relativi sensi di colpa che ciò può comportare, non sfuggirà all’operatore la possibilità di intravvedere meglio le ragioni del perché proprio in questa fase si possano registrare in numero elevato comportamenti genericamente “criminali” che, come si è ipotizzato, hanno una valenza di sollievo particolare nell’economia psichica “appesantita” dell’adolescente. C’è di più: nel caso del bambino che diventa “cattivo” per senso di colpa, se il genitore si limita a punirlo confermandosi nella convinzione che il bambino “è effettivamente cattivo” per costituzione o per difetto di carattere (caratteropatia), sappiamo che c’è il rischio di un irrigidimento del comportamento e dell’instaurarsi di una relazione dalle tinte sado-masochiste tra l’adulto che si sfoga castigando e il bambino che si pacifica subendo la punizione. Con l’adolescente, è la società che rischia di intrappolare se stessa e l’altro in una dinamica analoga se si dispone a considerare qualsiasi atto illecito commesso da un adolescente come l’espressione di una psicopatia o di una disposizione caratteriale consolidata.
3. Distinzione tra il livello della colpa e quello della pena: Freud ha sempre precisato che la competenza della psicoanalisi si limita al senso di colpa come fatto psichico e non può sostenere un ruolo nell’accertamento di un crimine né nella definizione della colpevolezza o meno di un imputato. Ciò significa che non è possibile ad esempio fare ricorso al complesso edipico per provare la colpevolezza di un figlio accusato di avere ucciso il padre né, all’opposto, si può utilizzare lo stesso riferimento per scagionare qualcuno da un parricidio qualora questo fosse stato di fatto accertato. Il riferimento al concetto di colpa che ricorre nell’ambito della psicoanalisi non è dello stesso ordine logico e non può quindi essere usato senza mantenere chiara questa distinzione. Di passaggio può non essere mutile richiamare il fatto che per Freud il soggetto è sempre psichicamente imputabile m quanto soggetto che “sceglie”, anche se il concetto di scelta non coincide con “scelta cosciente”‘; una cosa è però l’imputabilità psichica (alla quale ogni soggetto è di per sé sottoposto) e un’altra è l’imputabilità giuridica che è affidata a un giudice come rappresentante di un codice socialmente stabilito. L’interesse della psicoanalisi è, semmai, nella direzione qui indicata da Freud e cioè “nel fornire un nuovo fondamento psicologico alla pena”. Tale contributo può non essere affatto indifferente se si tiene conto dell’ipotesi che la maggioranza dei delinquenti (cioè quelli su base non perversa) è coinvolta con il crimine in quel particolare modo che è stato prospettato.
Il riferimento al senso di colpa evocato da Freud, rimanda necessariamente, specie nei casi di delinquenza giovanile, a una conflittualità sul versante della funzione paterna. Contrariamente però a quello che si sarebbe tentati di pensare, la delinquenza non sembra legata a un venir meno della figura del padre quanto piuttosto a una moltiplicazione, e quindi a una divisione, dell’immagine del padre.
Così argomenta a ragione Rassial :
“II delinquente, lungi dal misconoscere la figura del padre, l’interroga scomponendo, direttamente, il padre reale (il genitore), il padre immaginario (quello proposto e sostenuto dalla madre in questo ruolo), e il padre simbolico (il garante del nome e dell’identità). Si assiste molto spesso al fatto che molti giovani delinquenti proiettano su più figure paterne sparse (uno zio, un giudice, un capo banda ecc.) ognuna di queste dimensioni. Soprattutto questo succede quando il padre offre l’esempio di una particolare debolezza, sia essa reale (invalidità, alcolismo), o immaginaria (nel senso della madre) o simbolica (per esempio come straniero o immigrato in un nuovo paese)… Il ragazzo non può affermare la sua identità, attraverso l’ambivalenza rivolta al padre, quando o il discorso materno o il discorso sociale giustifica l’uccisione simbolica del padre, o attraverso un discorso di squalifica “per indegnità”, fatto magari in nome della difesa dell’infanzia, o attraverso un discorso razzista o altro… Al contrario di quanto pensa un’ideologia “protettiva” e “decolpevolizzante”, il miglior aiuto che si può fornire a un giovane delinquente è quello di aiutarlo a rivalorizzare il gruppo familiare, e non di promuovere una “colpevolezza” dei suoi genitori”.
L’interessamento che in questi ultimi tempi si è lodevolmente rivolto alla promozione di una riforma carceraria finalizzata a “umanizzare” la condizione dei detenuti prevedendo tra l’altro l’intervento di nuove figure di operatori, i cosiddetti operatori penitenziari, potrebbe ricevere un impulso positivo dalle considerazioni che la psicoanalisi ha promosso attorno alle condotte delinquenziali.
Richiamando in chiusura la complessità del fenomeno delinquenziale, il suo profondo radicamento nel sociale, nell’economico, nel culturale e nel politico (ordinamenti e leggi, forme di emarginazione e di lotta sociale, contrapposizione tra culture sociali di stato e di antistato, legami con forti profitti illeciti per il traffico e il consumo della droga ecc.), è opportuno procedere con estrema cautela nel promuovere una riflessione sulle componenti psichiche soggettive implicate, per evitare il rischio di una psichiatrizzazione massiccia del delinquente. Forse il modo più proficuo, in prima istanza, per evitare questo rischio può essere quello di aprire uno spazio di riflessione condivisa tra gli psicologi e gli operatori che si muovono nel campo della Legge ( avvocati, giudici, magistrati) oltre che con gli operatori penitenziari destinati alla relazione con i giovani e gli adolescenti che hanno problemi con la legge. Per questi ultimi operatori in particolare risulta infatti difficile recuperare un equilibrio neutralizzando due tipi di spinte opposte a cui sono esposti: da una parte si sentono sollecitati in direzione di una complicità comprensiva e dall’altra vengono sfidati e provocati ad assumere una posizione di “maestro-padrone”. Ritagliarsi una posizione intermedia diventa un compito realmente difficile, specie in assenza di uno spazio di supervisione dove poter elaborare la propria esperienza professionale.
Con il D.P.R. 448/1988 che regola l’istituto delle “misure cautelari” si è aperto un nuovo spazio di collaborazione proficua tra Tribunale, carcere e gli operatori dei servizi di assistenza degli enti locali. Al giudice infatti è data la possibilità di affidare il minore imputato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, ai quali è richiesto di svolgere attività di sostegno e controllo in collaborazione con i servizi di assistenza istituiti dagli enti locali. In questo modo è offerto al minore la possibilità di valutare le ragioni e le conseguenze di un suo comportamento delinquenziale con un aiuto a recuperare il senso di una pena nella direzione di una riparazione del danno e di una propria riabilitazione sociale.
Tratto dal testo: Il soggetto in divenire, Edizioni Libreria Cortina, Milano 2002, pp.239-244.
sergiopremoli@alice.it