23 Gen 2020 - cultura
Parlare di tossicomania o di tossicodipendenza significa per la psicoanalisi delimitare in un certo senso il campo della propria azione e influenza, in quanto la scelta di usare certe sostanze si presenta generalmente come alternativa (nel senso che la esclude) all’offerta che la psicoanalisi prospetta al soggetto per far fronte al disagio psichico legato al vivere.
Quando Freud (L’avvenire di un’illusione,1927) parla dei rimedi a disposizione dell’uomo per fronteggiare l’eccessiva durezza della vita, stila una classifica tripartita così concepita:
– diversivi potenti: che ci fanno prendere alla leggera la nostra miseria;
– soddisfacimenti sostitutivi: che hanno il potere di ridurre il peso della vita;
– sostanze inebrianti: che ci rendono insensibili alle sofferenze del la vita.
Di queste ultime egli dice che è il rimedio “più rozzo ma anche il più efficace”. È come se in un certo senso la psicoanalisi si trovasse doppiamente con le mani legate di fronte a questa opzione: sia per l’efficacia che la stessa presenta (aspetto che viene normalmente disconosciuto), sia perché non ha argomenti validi per scoraggiarne scelta se non quello di segnalare che, alla fine, c’è il rischio di uno sciupìo di energie: “per colpa loro (delle sostanze) in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi ammontari di energie che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della sorte umana” (p. 570). In altre parole, il tossicodipendente, se si guardano le cose dal punto di vista di un’economia generale, spreca le sue energie. Argomento che, come si può facilmente intuire, è destinato a lasciare indifferente chi fa già uso delle sostanze.
Se non può fare molto, la psicoanalisi è però in grado di dire alcune cose sulle questioni implicate in questa faccenda, senza ovviamente entrare nel merito delle implicazioni socio-politiche-economiche del caso.
Tossicomania e apparato psichico
Ciò che consente la messa in atto di una strategia tossicomanica è, per Freud, la natura complessa del nostro apparato psichico. Esso funziona infatti inizialmente secondo una modalità da “tossicomania primaria”, nel senso che tende ad eliminare, senza indugio e sempre, tutte le tensioni che vengono registrate come fonti di “dispiacere”. Attraverso il ricorso all’allucinazione o tramite le risposte fornite dall’intervento “sempre pronto” della madre-nutrice, l’apparato psichico del neonato sperimenta questa modalità di funzionamento che, con il passare del tempo e per il sottrarsi della madre a questa “funzione vicariante”, è costretto ad abbandonare per dotarsi della nuova modalità di funzionamento capace di tener conto della realtà esterna. Con questa forma di regolazione “secondaria” L’inconveniente è però che il “modello primario” di funziona- mento dell’apparato psichico, che Freud dice essere in realtà una “finzione ideale”, continua a esercitare una grande attrazione anche in seguito, per cui non è esclusa la possibilità per il soggetto, specie di fronte a esperienze di intensa frustrazione e angoscia, di regredire a quella forma di funzionamento “tossicomanico”.
Freud può così concludere dicendo che le tossicomanie da alcool o da altre sostanze sono da ritenersi come “secondarie” rispetto a quella “primaria” sopra indicata. In questo senso si capisce come tutti i soggetti sono coinvolti nella questione della tossicomania, compresi quelli che non hanno mai fatto uso di sostanze tossiche.
Tossicomania, dipendenza e depressione
Un elemento caratterizzante lo stato di tossicomania è l’instaurarsi della “dipendenza” (non a caso infatti si usa come equivalente il termine “tossico-dipendenza”) che è al tempo stesso fisica e psichica. Viene in un certo senso riattivata la modalità di esistenza propria del bambino piccolo con la sua totale dipendenza dall’intervento della madre-nutrice. Nel caso dell’adulto la dipendenza è invece dalla “sostanza”, qualunque essa sia: alcool, farmaci o droghe di vario genere. La sostanza diventa l’unico oggetto dell’investimento libidico del soggetto che finisce in questo modo per attivare, con il rapporto “duale” con la sostanza, uno stato di “solitudine” a volte solo mascherato da superficiali forme di rapporto con chi può essere comunque funzionale alla acquisizione della sostanza stessa o che lo affianca nel suo consumo solipsistico della stessa.
Questo stato di dipendenza primaria si accompagna anche a una modalità di soddisfazione pulsionale di tipo orale nella forma del- l’incorporazione: tutto il corpo è praticamente ridotto a una “bocca”, sia che si tratti di assumere qualcosa ingerendolo che iniettandoselo (la siringa e il buco non hanno niente a che vedere con valenze simboliche di tipo fallico, ma sono solo variazioni sul tema dell’oralità pregenitale). Risulta abbastanza chiaro che la sostanza ha preso il posto che una volta era occupato dall’oggetto primario: la madre-nutrice. Generalmente si tende a spiegare questo esito come l’effetto della mancata elaborazione di una forte depressione legata al vissuto di “perdita” dell’oggetto. In questo senso, la scelta tossicomanica sarebbe un equivalente di altre scelte, come quella psicosomatica (conversione di una sofferenza psichica in sofferenza fisica) o come quella rappresentata dalla depressione melanconica. Per parte nostra saremmo invece propensi ad avanzare l’ipotesi che non di un “venir meno” dell’oggetto si tratti, quanto piuttosto di un’angoscia insostenibile legata a un “farsi avanti” dell’oggetto, un presentarsi però avvertito come fortemente minaccioso e pericoloso. Ora se si pone mente al fatto, oggi non trascurabile, che queste scelte hanno una particolare incidenza nell’età adolescenziale-giovanile, e se ricordiamo quale sia il nodo cruciale che questo periodo evolutivo rappresenta per il soggetto in relazione all’elaborazione della questione del godimento del padre, forse non è poi così improbabile intravvedere in questa direzione l’esistenza delle ragioni più importanti alla base di queste scelte.
Tossicomania e viaggio nel tempo e nello spazio
Che ci sia di mezzo, per l’adolescente, la necessità di sottrarsi, allontanandosene, da qualcosa la cui presenza, a livello psichico, si fa troppo pressante e minacciosa, è confermato dal fatto che il “viaggiare” assume un significato centrale nell’esperienza adolescenziale. Stretto in un’economia di relazioni decise dalla società e rigidamente codificate, l’adolescente sviluppa un “bisogno di evasione” che non è tanto finalizzato alla ricerca di nuovi oggetti, quanto essenzialmente a “cambiare posto”, a “spostarsi” per sperimentare la possibilità di “trovare un proprio spazio” che non sia quello che gli è già stato assegnato, in primo luogo all’interno dell’ambito familiare.
Questo bisogno di spostarsi si manifesta non solo nell’interesse per tutti i mezzi meccanici che hanno a che fare con il movimento (macchine, motorini e simili diventano tra l’altro l’obiettivo privilegiato dei comportamenti di furto nell’adolescenza) ma anche con le pratiche di viaggio che l’adolescente mette in atto al di fuori dei circuiti organizzati, che gli offrono un viaggio in realtà solo per “fargli fare un giro”, riportandolo al punto di partenza.
L’espressione esasperata e patologica di questo bisogno si ha nei comportamenti di “fuga” che si manifestano essenzialmente nell’adolescenza. L’uso delle sostanze che vanno sotto l’indicazione generica di “droghe” permette all’adolescente la soddisfazione del biso gno di viaggiare spostandolo in qualche modo dall’asse spaziale a quello temporale: le sostanze permettono cioè di “viaggiare” stando fermi (anzi, stando inchiodati sul posto, che è il posto del reperimento della “roba”: è significativo, tra l’altro, che molti provvedimenti legali verso il tossicomane prevedano l’accentuazione di questo aspetto, ad esempio con la sottrazione della patente per guidare, con l’obbligo di un soggiorno controllato, con l’incarcerazione ecc.).
C’è di più: i vari tipi di sostanze sono scelte anche in rapporto al tipo particolare di “viaggio” che il loro effetto è in grado di provo- care. Ci sono almeno, quattro effetti diversi legati ad altrettanti tipi di sostanze:
a) l’effetto planante è provocato dall’uso dei derivati della canapa indiana o da dosi modeste di oppio. Questo effetto è quello di un filtro capace di attenuare le sensazioni sgradevoli attraverso l’accentuazione di alcune percezioni e il rallentamento delle reazioni motorie. Il rapporto con il tempo è a sua volta come rallentato, quasi sospeso in un indistinto e piacevole fluire senza variazioni di continuità;
b) l’effetto trip: è caratteristico degli allucinogeni, specialmente dell’LSD. Si avvicina a una psicosi sperimentale e comporta la pro duzione di un’altra logica spazio-temporale fino al punto che l’Io può raggiungere una perdita totale di contatto con la realtà.
Negli anni sessanta, specie negli Stati Uniti, c’era tutta una letteratura che sottolineava il carattere di “viaggio iniziatico” legato all’uso di queste sostanze, con il rischio anche di un “cattivo viaggio” (bad trip) consistente nella produzione di forti quote di angoscia, di tipo paranoide;
c) l’effetto flash: è l’effetto prodotto per esempio dall’eroina.
Scatenato quasi immediatamente con l’iniezione della sostanza in vena, si manifesta come un’esplosione orgastica. La dimensione temporale è totalmente modificata dalla combinazione di una vertigine e di una accelerazione, con l’insorgenza spesso di una forte tachicardia;
d) l’effetto speed: è ottenuto principalmente con l’uso delle anfetamine ma anche con la cocaina. Si produce un’accelerazione non delle percezioni ma dei processi intellettivi, e una caduta delle facoltà mnestiche. L’assunzione massiccia di anfetamine produce uno stato di veglia prolungato, una concentrazione del pensiero in un monoideismo a sfumature paranoiche e in uno stato di grande affaticamento a volte vicino alla depressione melanconica. L’assunzione di cocaina (di cui Freud fu l’inconsapevole sperimentatore prima di arrivare a un passo dalla scoperta scientifica degli effetti) provoca gli stessi effetti di concentrazione del pensiero, di accelerazione delle attività intellettuali, ma l’effetto di accelerazione si combina a una certa anestesia che può arrivare in alcuni casi fino a una sensazione di derealizzazione corporea.
Come si può intuire da questi accenni, tutti questi diversi effetti hanno in comune la caratteristica di sovvertire il normale rapporto con le dimensioni spazio-tempo, aprendo il soggetto, per usare u- n’espressione di alcuni tossicomani, a una “quarta dimensione”.
La cosa importante sta nel sottolineare che l’incontro dell’adolescente con le droghe avviene contemporaneamente al suo aprirsi a una nuova percezione dello spazio e del tempo, ossia alla dimensione di “infinito” spaziale e temporale, col superamento della dimensione spaziale “familiare” (quella riguardante i luoghi dell’esperienza infantile) a favore di uno spazio “cosmico”, e col superamento del riferimento alla temporalità limitata alla propria catena generativa (che risale per il bambino al massimo fino alla generazione dei nonni) nella quale rimane primario il riferimento ai genitori, a favore di un tempo “immemoriale” che si lega all’indietro alla memoria dell’umanità verso il suo passato più lontano, e in avanti si proietta nell’eternità dei tempi a venire (questo spiega in parte il fascino delle proposte religiose capaci di garantire un superamento della morte con la promessa di una vita futura).
Questa nuova apertura spazio-temporale all’infinito contiene qualcosa che è dell’ordine della psicosi e il soggetto è chiamato a introdurre in questo “ordine illimitato” un qualche sistema di limitazione e di misurazione attraverso il recupero di quello spazio di- segnato e ritagliato all’esterno dal soggetto intorno all’età dei quattro anni, che è il luogo della fobia, prima rappresentazione esterna dell’apparato psichico e luogo di nascita del soggetto e della sua capacità di pensare.
Tossicomania e offerte di aiuto
Se si parla qui di offerte di aiuto è perché normalmente il tossicodipendente non è in grado di avanzare “richieste di aiuto” se non in una direzione soltanto, obbligata, quella di aiutarlo a procurarsi la sostanza. Sempre più numerose sono invece le “offerte” di aiuto che da ogni parte vengono indirizzate ai tossicodipendenti.
Ciò che colpisce, nelle persone che sembrano mostrare una reale “bontà di intenti”, è il carattere di necessità che assume per loro l’offerta di cura: “Non si può fare a meno di curarsi di questi ragazzi!”. Compare qui un tratto, quello dell’urgenza, della coazione e della necessità, che è speculare alla modalità di funzionamento psichico del tossicomane: all’urgenza di “farsi” del drogato viene a corrispondere l’urgenza di “curare” dell’operatore, volontario e non.
In realtà sappiamo che esiste una dissimmetria tra il bisogno di curare dell’operatore e il desiderio di accettare questa cura da parte del tossicomane il quale parassita più che può le energie di chi gli si mette a disposizione fino al punto di lasciarlo spesso spolpato e svuotato, oltre che deluso. Ma anche nel caso che accetti la cura, è sempre il tossicomane in realtà a condurre la danza, nel senso che è lui che fissa il posto che deve occupare il suo terapeuta- rieducatore: lo inchioda cioè al posto dell’istanza superegoica e genitoriale con il compito di dirgli cosa deve fare e di aiutarlo- costringerlo a farlo. L’altro, sedotto da questa richiesta che sollecita il proprio narcisismo onnipotente, difficilmente resiste alla tentazione di rispondergli. Così, se mai la cura avrà un esito (raramente, perché spesso il presunto interessato abbandona il campo in fretta), questo esito sarà allora quello di sostituire una dipendenza con un’altra: la dipendenza dalla sostanza con quella da un Ideale dell’Io che è in realtà non il proprio ma quello dell’altro, del proprio soccorritore. La posizione del tossicomane infatti, come un tempo quella dell’isterica, sollecita in un certo senso delle pratiche perverse di cui egli diviene lo strumento. Si tende a pensare infatti che il tossicomane abbia bisogno di un “padrone” (un maestro, un rieducatore, un modello), un “padrone” per quello “schiavo” (della sostanza) che egli è. In questo senso basta guardarsi in giro per vedere la proliferazione di iniziative del tipo “setta-di-riconversione”, che ruotano attorno a figure di santoni-guru di nuova fattura.
Tornando all’operatore, la questione è in un certo senso questa: come è possibile prendersi cura di un tossicomane senza però accettare la condizione che egli pone in prima istanza per essere curato?
Non bisogna inoltre dimenticare che si deve fare molta attenzione a non spingere un tossicomane verso la cura prospettandogli l’alternativa: “o ti curi, o muori!” perché può succedere che l’unico modo che può intravvedere per recuperare la propria soggettività sia quello di optare per la morte. Chi si prende cura del tossicomane deve sapere che è coinvolto soprattutto nella questione del rapporto, come direbbe Lacan, tra sapere e godimento. È facile prendere l’abbaglio di pensare che il problema del drogato sia la sofferenza: questa, casomai, la scarica su chi gli sta vicino pur di salvaguardare il suo segreto che riguarda, in realtà, il suo sapere sul godimento.
È qui, sulla capacità di far accedere il soggetto a questa particolare dimensione del sapere, di un sapere sul godimento, che si annida il pericolo specifico di una prima esperienza nell’assunzione delle droghe cosiddette pesanti, come l’eroina e la cocaina, a differenza di una serata passata per la prima volta con una sbornia d’alcool.
Il pericolo è che, senza altro indugio, l’adolescente rinunci a ogni altra esperienza a favore di questo godimento che non è di natura sessuale, di questo sapere che non si fonda sul registro del simbolico, con l’elaborazione della castrazione che questo comporta.
Qualsiasi progetto di prevenzione e di cura della tossicomania che non parta tenendo conto di questo dato di base ma che, al contrario, pensi di poter fondare la sua efficacia sul deterrente della sofferenza o, peggio ancora, della morte, è destinato a lasciare indifferente chi già si droga e rischia di sollecitare la curiosità di chi non ha ancora provato a farlo. Certe campagne di prevenzione, più che a far arrivare un messaggio ai tossicodipendenti servono a palesare i desideri rimossi e repressi di chi le promuove.
Scritto tratto dal testo: Il soggetto in divenire, Edizioni Libreria Cortina, Milano2002.